Il vero volto della filantropia: cos’è necessario per generare un cambiamento sociale significativo

La filantropia comporta rischi e la maggior parte delle iniziative, valutate in modo rigoroso, si dimostra inefficace. La nostra intervista con Andy Ratcliffe, CEO di Impetus – The Private Equity Foundation (Impetus-PEF), illustra le modalità con cui i funders possono definire il proprio modello di impatto per aumentare l’efficacia delle loro iniziative filantropiche.

Il vero volto della filantropia: cos’è necessario per generare un cambiamento sociale significativo

Impetus-PEF è stata costituita nel 2013 a seguito della fusione di due organizzazioni britanniche di venture philanthropy: Impetus Trust e la Private Equity Foundation. Per armonizzare due modelli distinti, Impetus-PEF ha scelto di rivisitare il proprio modello per focalizzare il suo approccio e potenziare le modalità di supporto alle organizzazioni non profit che dimostrino il potenziale per poter generare un impatto significativo e duraturo.

Il risultato di questo processo strategico ha portato a due risultati principali. In primis, Impetus-PEF ha rivisto la propria Theory of Change, restringendo il suo ambito d’intervento e perfezionando un modello di supporto a lungo termine (≅10 anni) che enfatizza in particolare la costruzione della capacity delle organizzazioni beneficiarie e della loro abilità di gestire l’impatto sociale piuttosto che focalizzarsi sulla scalabilità a breve termine. Inoltre, ha permesso a Impetus-PEF di diventare un punto di riferimento nella propria specifica area d’intervento, sviluppando le competenze necessarie.

Professionalità e tempo sono precondizioni essenziali nel mondo filantropico per evitare di sprecare risorse su iniziative che non potranno produrre risultati significativi per i beneficiari finali. Ma il cambiamento costa. Impetus-PEF, best pratice riconosciuta tra i modelli erogativi, investe in modo consistente non solo sulle organizzazioni ma sulla propria capacity interna. Dal 2013, il team di investimento di Impetus-PEF ha studiato oltre 2.000 organizzazioni e investito solo in 1 ogni 40; ogni investment director gestisce due o tre grant contemporaneamente, un numero molto inferiore alla media tipica per l’officer di una fondazione. Il costo di questo team rappresenta il 20-30% dell’ammontare che Impetus-PEF destina ogni anno in donazioni, ma questo sforzo economico permette all’organizzazione di identificare e supportare soluzioni e partner efficaci – e di dimostrare il proprio valore aggiunto: nel 2016, Impetus-PEF ha generato circa 9,5 milioni di euro di valore per le organizzazioni beneficiarie, di cui 40% in grants, 21% grazie al supporto dell’investment team, 17% in servizi pro bono, e il 13% grazie a fondi supplementari raccolti.

Nell’intervista con Andy Ratcliffe, CEO di Impetus-PEF, abbiamo analizzato sfide e benefici di un approccio ad alto coinvolgimento che mira a costruire organizzazioni non profit capaci di generare un ampio impatto sociale. La filantropia è rischiosa ma capacity builders come Impetus-PEF possono mostrare la strada ai soggetti erogatori per creare un cambiamento duraturo, alzando l’asticella su quanto efficacemente possono essere utilizzate le risorse disponibili.

 

Cominciamo con una domanda sull’approccio di Impetus-PEF: puoi illustrarci le tappe principali che hanno portato al vostro attuale modello di supporto?

Impetus-PEF è nato dalla volontà di due organizzazioni distinte che volevano dimostrare la possibilità per la filantropia di prendere in prestito alcuni concetti dal mondo del venture capital e applicarli al settore sociale per costruire organizzazioni performanti e aiutarle a crescere.

La fusione tra Impetus e la Private Equity Foundation è stata facilitata da alcune similarità tra i modelli: entrambe le organizzazioni seguivano un approccio di venture philanthropy ed erano focalizzate sulla crescita, per supportare rapidi processi di scaling-up delle non profit beneficiarie. Ciò nonostante, diverse divergenze dovevano essere riconciliate: le due organizzazioni lavoravano su tematiche diverse e con un focus geografico differente. Grazie al workshop con Davide Hunter, prendemmo due decisioni fondamentali che hanno definito la nostra Theory of Change: la prima fu di focalizzarci fortemente su un bisogno sociale. Comprendemmo che dovevamo aumentare la nostra comprensione di una tematica specifica per poter sviluppare il nostro modello di intervento adeguatamente e dimostrare di essere in grado di produrre un impatto significativo. Questa riduzione del raggio d’azione ha portato a una ridefinizione della nostra mission per aiutare giovani svantaggiati nel Regno Unito tra i 15 e i 24 anni ad avere successo in ambito educativo e a trovare – e mantenere – un lavoro.

La seconda decisione è stata di spostarci da un focus sulla scalabilità a breve a un approccio impact-first. Questa è una delle aree in cui l’analogia tra il settore del private investment e la filantropia non regge: acquistare un business e farlo crescere, aumentando il numero di persone che comprano i tuoi prodotti, viene definito normalmente un successo; questo stesso empowerment di tipo finanziario non riassume invece l’impatto di un’organizzazione non profit.

“Grazie al workshop di Theory of Change, prendemmo due decisioni fondamentali: posizionarci fortemente su un bisogno sociale e spostarci da un focus sulla scalabilità a breve a un approccio impact-first”

Sapevamo che in UK esistevano non profit molto performanti che annaspavano per aumentare le proprie risorse a fronte di organizzazioni economicamente forti ma incapaci di produrre altrettanto impatto sociale. Correvamo il rischio, semplicemente, di far crescere organizzazioni inefficaci! Per questo ci siamo spostati al modello attuale: abbiamo deciso di concentrarci fortemente sulla costruzione della capacità interna delle non profit, per provare che abbiano un impatto sociale e siano in grado di portarlo avanti nel tempo, prima di iniziare a pensare alla scalabilità.

Oggi abbiamo un portafoglio di 17 non profit che lavorano su educazione e occupazione in diverse fasi di sviluppo. Dalla mia nomina a CEO di Impetus-PEF, ho provato a innescare due cambiamenti principali: il primo consiste in un senso di successo a livello aggregato. In UK esiste un gap tra i risultati accademici conseguiti da ragazzi poveri in confronto a quelli di coetanei più benestanti. Quanto possiamo ridurre questo gap in cinque anni se il nostro portafoglio ha successo? Adesso la nostra definizione di risultato considera quanto le nostre organizzazioni beneficiarie migliorano la loro efficacia e rafforzano il proprio stato finanziario.

“Correvamo il rischio di far crescere organizzazioni inefficaci! Per questo ci siamo spostati all’attuale modello, focalizzandoci sulla valutazione dei risultati e sul rafforzamento delle organizzazioni per dimostrare che potessero avere un impatto e mantenerlo nel tempo”

La seconda parte deriva dall’individuazione di un fallimento di mercato: anche se riusciamo a costruire una grande non profit, con forti evidenze di impatto e un business model sostenibile, non è detto che le risorse affluiscano spontaneamente. Se vogliamo davvero aiutare le migliori organizzazioni ad avere successo, dobbiamo diventare più abili e attivi per far sì che grandi risorse arrivino dove sono necessarie, per assicurarci che “fondi” e “evidenza di impatto” siano due fattori connessi. Ora siamo molto più coinvolti nella ricerca di co-investitori, per attrarre risorse che possano affiancarci nel processo di crescita delle nostre organizzazioni, in particolare quando queste raggiungono uno stadio adatto alla crescita. Stiamo anche cercando di influenzare il policymaking: il Dipartimento dell’Educazione del Regno Unito spende ogni anno 6 miliardi di sterline – è evidente che, affinché il nostro modello abbia successo, sarà necessario che le risorse pubbliche giochino un ruolo di primo piano.

“Se vogliamo davvero aiutare le migliori organizzazioni ad avere successo, dobbiamo diventare più abili e attivi per far sì che grandi risorse arrivino dove sono necessarie, per assicurarci che “fondi” e “evidenza di impatto” siano due fattori connessi”

 

Che cosa prevede il modello di supporto di Impetus-PEF in termini di approccio e orizzonte temporale?

Il nostro approccio consiste nel supportare non profit e imprese sociali a lungo termine attraverso donazioni non vincolate, senza finanziare un progetto specifico ma investendo nell’organizzazione, nello sviluppo del suo business plan e della sua capacity. Il finanziamento è collegato al raggiungimento da parte della non profit di traguardi prefissati monitorati su base quadrimestrale.

Nelle fasi iniziali, il nostro sostegno assiste i vertici a focalizzare il loro modello d’impatto e decidere i cambiamenti necessari.

In un secondo momento, serve ad aiutare l’organizzazione a coprire i costi di implementazione, monitoraggio e valutazione di queste nuove modalità.

Infine, le donazioni aiutano i nostri beneficiari a superare le difficoltà insite nei processi di scale-up. In tutto il cammino, il nostro investment team lavora fianco a fianco con la leadership della non profit per aiutarla a potenziare l’impatto attraverso un modello pionieristico nel settore.

In termini di risorse e tempistiche, il nostro intervento si svolge in diverse fasi:

  1. Screen. Tutto comincia con la due diligence che svolgiamo per identificare candidati idonei attraverso un mix di ricerca nel settore e referenze, guardando a fattori come “Ambizione di impatto” – “Sostenibilità prospettica” – “Impegno nello sviluppo di sistemi di monitoraggio e valutazione”. Effettuiamo un’analisi approfondita attraverso incontri, discussioni con manager e membri del CdA, review della documentazione. Questo aiuta sia noi che la non profit ad allinearci sulla partnership.
  2. Focus. Iniziamo con un supporto di un anno, attraverso un grant di £100,000 (circa 111,400 euro): in questo periodo lavoriamo sulla strategia d’impatto, assicurandoci che il CdA della non profit sia in linea con la nuova rotta intrapresa – riprogettando o ridefinendo un programma esistente e discutendo i cambiamenti interni necessari per l’implementazione su un orizzonte di tre anni. In pratica, assistiamo la non profit a sviluppare una mission chiara e un piano operativo.
  3. Build. La terza fase consiste in un supporto al piano triennale, attraverso un grant di £150,000-250,000 ogni anno (170,000 – 280,000 euro). L’obiettivo è di mettere in pratica il nuovo modello e sviluppare la capacity necessaria (attraverso formazione interna e l’assunzione di staff specializzato), cominciando a testarne efficacia e replicabilità attraverso la raccolta dei dati di outcomes e, dopo alcuni anni, attraverso una valutazione esterna dell’impatto. Contestualmente, supportiamo anche altre aree essenziali per la crescita e la sostenibilità dell’organizzazione, come il controllo finanziario, le risorse umane, e lo sviluppo della leadership. L’obiettivo è aiutare l’organizzazione a gestire il suo impatto, predisponendo sistemi di raccolta dati idonei alla produzione di outcomes in modo affidabile e sostenibile.
  4. Scale. Una volta che il programma è implementato correttamente, l’ultima fase consiste in un altro grant pluriennale (generalmente per 3 anni) per favorire la scalabilità, attraverso pianificazione, definizione della strategia di mercato, e un ulteriore rafforzamento del senior team. Normalmente, questo richiede un nostro impegno di oltre £250,000 l’anno (280,000 euro), ma dipende molto dai bisogni dell’organizzazione. Stiamo imparando a definire il giusto ammontare: abbiamo avuto esperienze di scala in passato ma solo ora stiamo cominciando ad approcciarle con il nostro nuovo modello. Inoltre, vogliamo incanalare altri capitali per sostenere l’organizzazione, riducendo il suo grado di dipendenza dal nostro supporto. L’obiettivo di questa fase di espansione consiste nel far sì che l’organizzazione possa produrre outcomes rilevanti per un più ampio numero di persone.

La donazione rappresenta il nostro principale strumento, ma penso che ci sarà un punto naturale di transizione dove noi lavoreremo a fianco di investitori sociali, adottando strumenti di debito o modelli di quasi-equity: se riusciamo a portare l’organizzazione a raggiungere un certo livello di impatto e di sostenibilità finanziaria, possiamo cominciare a pensare di far entrare altri investitori esterni, verosimilmente durante l’ultima fase del nostro supporto.

 

Come bilanciate il monitoraggio della performance dei vostri beneficiari con l’affermazione di una relazione costruttiva in cui i dati non sono percepiti con timore? In sostanza, come coniugate una partnership di fiducia a un approccio filantropico efficace?

Si tratta di un modello complesso che posso portare avanti solo grazie a un team di esperti altamente competenti. Impetus-PEF ha 35 persone di staff di cui 14 nell’investment team che seleziona i beneficiari e li sostiene nel loro cammino verso una miglior performance, fornendo un supporto altamente hands-on.

Le partnership cominciano con la gestione da parte dei nostri investment directors di workshop plurigiornalieri “Driving Impact” per definire la Theory of Change dell’organizzazione e il suo approccio. I direttori lavorano duramente per diventare al contempo alleati e critical friends del leader della non profit, costruendo una relazione molto forte: investono circa un giorno a settimana su ogni non profit (oltre 200 ore l’anno), incontrando il leader ogni mese, partecipando alle riunioni del CdA, erogando formazione in change management ai manager dell’organizzazione, e supportando nella pianificazione di aspetti sia implementativi che valutativi.

È fondamentale conoscersi molto bene prima di avviare la collaborazione: in questo senso la due diligence non consiste soltanto in una nostra analisi dell’organizzazione: è come un appuntamento – la non profit deve capire se noi siamo il giusto match. Possiamo essere utili ai nostri beneficiari solo se si aprono completamente a noi: quindi durante la due diligence e la prima fase, deve esserci un momento in cui il leader della non profit comprende che, se ci dirà come stanno le cose, noi non fuggiremo. Uno dei nostri partner ha descritto questo come il momento in cui “si è messo a nudo di fronte all’investment director”. In quel momento cominci a costruire la fiducia. È complesso, non lineare, e con momenti sfidanti – ma è necessario e ne vale la pena.

Gli investment directors giocano anche il ruolo di intermediari, mappando i bisogni critici delle organizzazioni nel nostro portafoglio e identificando persone altamente competenti all’interno del nostro network pro-bono che comprende circa 400 individui dalle principali società inglesi di consulenza manageriale, legale, tributaria e di comunicazione. L’obiettivo è trovare il miglior allineamento per aree di sviluppo organizzativo propedeutiche a una crescita della performance. Nel 2014, il nostro network ha donato oltre 10.000 ore pro-bono per 150 progetti dei nostri partner non profit, e vogliamo aumentare questo livello ogni anno. Mi piace pensare che non ci sia un singolo problema che il leader di una piccola non profit si trovi ad affrontare per cui non possiamo individuare qualcuno che possa aiutarlo a risolverlo – che si tratti di costruire i sistemi finanziari, assumere un nuovo senior manager, comprare il primo sistema IT, ecc. Si spazia da grandi questioni strategiche a temi operativi: noi incanaliamo la nostra esperienza per aiutare l’organizzazione a risolvere le sue sfide.

“Mi piace pensare che non ci sia un singolo problema che il leader di una piccola non profit si trovi ad affrontare per cui non possiamo individuare qualcuno che possa aiutarlo a risolverlo. Noi incanaliamo la nostra esperienza per aiutare l’organizzazione a risolvere le sue sfide”

 

Quali sono le principali sfide del vostro modello – per le organizzazioni beneficiarie e per voi?

Per quello che riguarda i nostri beneficiari, credo che la parte più complessa dipenda dal fatto che li sosteniamo molto ma al contempo li sfidiamo sul loro modello di impatto. Anche se molti di loro hanno familiarità con il concetto di Theory of Change, in quasi tutte le partnership torniamo alle basi nei nostri workshop “Driving Impact”: quali persone volete aiutare, quali outcomes state cercando di conseguire per loro, come sta andando, dove dovete migliorare… In genere si tratta di una conversazione complessa per qualsiasi organizzazione perché mostrerà quasi sempre che ci sono cose che non stanno funzionando, alcune che devono essere interrotte, e alcune che devono essere interrotte dopo essere state portate avanti per molti molti anni.

Una delle cose che trovo più affascinanti nel settore della filantropia è il tema degli incentivi: i beneficiari hanno così tanti incentivi a presentare un quadro positivo ai propri finanziatori che ci siamo abituati alla percentuale di successo del 75% in ogni non profit – un “bel numero ma non troppo bello da non essere vero”. Scherzo – ma fino a un certo punto. Ora scaviamo molto più a fondo nei numeri, ponendo domande come: “Di quel 75% chi ha trovato lavoro? Quanti lo hanno mantenuto? Per quanto tempo? Se grazie a voi il 75% ha trovato un lavoro, quanti hanno abbandonato il programma e non figurano in quel 75%? E andando alle basi, con chi lavorate veramente – si tratta delle persone che più hanno bisogno di aiuto o di quelli che avrebbero trovato lavoro in ogni caso?”

Questo processo ti porta a identificare la vera performance organizzativa ed è fondamentale. A noi fornisce la piattaforma che ci serve per aiutarti a mettere a posto i programmi, definire come vuoi costruire l’organizzazione, e infine supportarla nella crescita per far sì che più persone ne possano beneficiare.

È importante che i finanziatori comprendano quanto è difficile per il leader di una non profit essere serio in tema di impatto, quali cambiamenti sono richiesti per trasformare un modello consolidato affinché sia più efficace. Si rendono necessarie scelte ardue – ad esempio smettere di lavorare con certi ragazzi perché hai compreso che non potrai aiutarli in ogni caso. E bisogna considerare i rischi percepiti. Una delle cose che vediamo, quando assistiamo una non profit nell’analisi del suo processo di impatto, è che, quasi sempre, dovrebbe investire più risorse nei propri programmi: possiamo mostrar loro quanto questo produca valore aggiunto, ma ciò non toglie che la prospettiva spaventi nell’attuale contesto di finanziamenti. Se torniamo al nostro esempio, spesso si scopre che il programma termina non appena il ragazzo trova lavoro; se il supporto fosse esteso per i primi tre mesi di lavoro, quello stesso ragazzo avrebbe molte più probabilità di mantenere il lavoro a lungo termine. Ma questo alza del 20% la tua base di costi – un numero che i finanziatori vedranno nei tuoi costi di struttura. È necessario un leader molto coraggioso per adottare quest’approccio, e i finanziatori devono comprendere che è raro e difficile trovare organizzazioni che si impegnino in un vero percorso results-oriented.

Per quanto riguarda le nostre sfide, ne conto tre principali. Il primo è che la maggior parte dei progetti non funziona, si tratta di un fattore importante che i finanziatori dovrebbero sapere: in ambito educativo, quando vengono effettuati studi rigorosi controfattuali (RCT), l’evidenza principale che emerge è che la maggior parte dei programmi sono inefficaci – e quelli che funzionano, funzionano solo un po’. Non esiste una bacchetta magica: la maggior parte delle iniziative, anche quando sembrano perfettamente sensate e sono implementate da persone competenti e appassionate, non producono i risultati desiderati. Questo significa che tante non profit non avranno successo e tante iniziative che selezioniamo, una volta testate rigorosamente, non si dimostreranno efficaci. Si tratta di un settore incredibilmente rischioso. Credo che la venture philanthropy sia complessa per i finanziatori, che si separano dalle proprie risorse e vogliono essere sicuri che siano messe a buon uso: è necessario un finanziatore sofisticato e coraggioso per capire che non si può avere quella certezza. Bisogna accettare che, se sei davvero bravo a comporre il tuo portafoglio, almeno alcune cose falliranno: questa è la natura della filantropia.

“Quando vengono effettuati studi rigorosi controfattuali (RCT), l’evidenza principale che emerge è che la maggior parte dei programmi sono inefficaci. Non esiste una bacchetta magica: tante non profit non avranno successo, e tante iniziative che selezioniamo non si dimostreranno efficaci. La Filantropia è un settore incredibilmente rischioso”

La seconda sfida consiste nel trovare le organizzazioni giuste con cui lavorare: a mio avviso la difficoltà principale sta nell’identificare leader aperti alla discussione. Non significa che non diano importanza all’impatto: è chiaro che tengono alla missione della loro organizzazione ma questo non è sufficiente. Ricordo un momento in particolare che mi ha illuminato: sostenevamo una non profit che aiuta i giovani a entrare all’università, e stavano andando molto bene, veramente un’organizzazione ad alto impatto. Quando incontrai il loro CEO per congratularmi dei risultati, non parlò d’altro che di quelle poche persone che non erano riusciti ad aiutare: questa è la mentalità che devi trovare, identificando organizzazioni che hanno prove di impatto ma anche la giusta attitudine al vertice.

La terza è molto semplice: è complesso reperire risorse per finanziare progetti di venture philanthopy. Noi non abbiamo un patrimonio alle spalle quindi faccio raccolta fondi ogni anno. Devo riuscire a dimostrare che siamo un’organizzazione che crea realmente un valore aggiunto, perché ognuno dei nostri finanziatori potrebbe facilmente donare direttamente alle nostre organizzazioni, identificando me e il mio team come un costo di struttura. Il mio entry point è che noi finanziamo le giuste organizzazioni e sosteniamo la loro performance e sostenibilità nel lungo termine. Quindi ai finanziatori dico che, così come si dimostrano intelligenti nei loro investimenti, altrettanto dovrebbero fare nella filantropia. Ricordo la frase: “Metà dei soldi che spendo in pubblicità sono sprecati ma non so quale metà(John Wanamaker – N.d.R.). Quando parliamo di filantropia la uso sempre come riferimento: molte cose che finanziate nel mondo della filantropia sono inefficaci, noi siamo quelli che vi aiutano a sapere quali funzionano.

“Devo riuscire a dimostrare che siamo un’organizzazione che crea realmente un valore aggiunto: molte cose che finanziate nel mondo della filantropia sono inefficaci, noi siamo quelli che vi aiutano a sapere quali funzionano”

  

Credi che i finanziatori stiano indirizzando più risorse a favore di organizzazioni che possono provare il cambiamento generato?

Ho profonda simpatia per i finanziatori perché si tratta di un lavoro davvero difficile. A noi servono anni di lavoro a strettissimo contatto con le non profit per comprendere se il loro modello funziona. Non sono i funders a non interessarsi all’impatto, ma è intrinsecamente complesso – per questo servono intermediari, consulenti e aggregatori.

Stiamo assistendo a un focus crescente sull’impatto in Regno Unito in questi anni: anche se in molti casi i Social Impact Bond (SIB) non sono lo strumento adatto, l’Agenda dei SIB ha messo un focus molto salutare sul valore aggiunto e sul cambiamento misurabile: il meccanismo finanziario in sostanza sta evidenziando l’importanza della metodologia di valutazione dell’impatto.

La mia unica preoccupazione è che ora tutti parlano d’impatto perché sanno che ci si aspetta questo da loro – non è lo stesso di fare impatto. Nel complesso è un’evoluzione positiva, ma comporta il rischio di non riuscire a differenziare tra un insieme di organizzazioni che sembrano simili perché parlano tutte di impatto ed efficacia.

“L’Agenda dei SIB ha messo un focus molto salutare sul valore aggiunto e sul cambiamento misurabile: il meccanismo finanziario in sostanza sta evidenziando l’importanza della metodologia di valutazione dell’impatto”

 

Pensi che la Brexit stia influenzando – o influenzerà – il settore sociale britannico?

Credo che l’esito del referendum sia stato determinato da una combinazione di fattori – principalmente un lungo periodo di austerità connesso a un ritiro dello Stato, un connubio che ha portato la consultazione ad essere un voto sulle profonde diseguaglianze nella nostra società più che sull’Unione Europea. Questo evidenzia l’importanza centrale del settore sociale per poter rimpiazzare alcune delle attività tradizionalmente svolte dallo Stato. C’è un nuovo duplice ruolo da svolgere – per stimolare lo Stato a mantenere il presidio su alcune tematiche e per identificare nuove soluzioni efficaci.

Per quanto riguarda le conseguenze, è troppo presto per dirlo ma ci saranno sicuramente ripercussioni. A mio avviso un punto di attenzione riguarderà Londra, uno dei cardini della filantropia nel Regno Unito: gli investitori sociali vengono in particolare dalla City e la Brexit potrebbe portare a una fuoriuscita di player fondamentali dal nostro settore finanziario.

 

Per ulteriori informazioni 

Fonti aggiuntive:

  • Driving Impact – Helping charities transform the lives of disadvantaged young people”, Impetus-PEF, 2016
  • Invested in Empathetic Challenge – A profile of Impetus-PEF”, Leap of Reason Ambassadors Community, 2017
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