Oak Foundation: da disegno di famiglia a modello di filantropia strategica

Abbiamo parlato con Kristian Parker, Trustee della Oak Foundation, per analizzare il processo che ha portato un disegno filantropico familiare a divenire negli anni uno dei principali e più strategici enti erogatori d'Europa

Oak Foundation: da disegno di famiglia a modello di filantropia strategica

La Oak Foundation è stata creata nel 1983 grazie ai proventi dei Duty Free Shoppers lanciati da Alan Parker. La Fondazione, un disegno di famiglia originariamente focalizzato su Danimarca e Zimbabwe a supporto di madri single, bambini e famiglie vulnerabili, si è impegnata in un percorso di crescita che ha portato a una nuova fase nei primi anni ’90, con un aumento delle erogazioni annuali e l’adozione di un approccio filantropico più professionale. Nel 2017, la Oak Foundation ha finanziato 330 programmi per un totale di 211,55 milioni di dollari a favore di 308 organizzazioni basate in 35 paesi, con una erogazione media di 600.000 dollari per progetto.

Abbiamo parlato con Kristian Parker, Trustee e Vice Chairman della Oak Foundation, per analizzare il processo che ha portato un disegno filantropico familiare a divenire negli anni uno dei principali e più strategici enti erogatori d’Europa, con una particolare attenzione alla capacity delle organizzazioni beneficiarie e alla necessità di dar vita a disegni filantropici collettivi per risolvere le problematiche urgenti della società di oggi.

 

Potrebbe descrivere l’evoluzione della Oak Foundation da disegno filantropico di famiglia a organizzazione strategica?

Abbiamo intrapreso un percorso come famiglia nel 1997, per determinare i nostri ambiti di interesse principali, arrivando a selezionare cinque delle nostre aree di programma attuali. Abbiamo anche capito l’importanza di avere uno staff dedicato, mentre ognuno dei membri della famiglia si sarebbe focalizzato su uno o due programmi per la crescita e lo sviluppo. In pratica, la nostra prima decisione consisteva nel decidere che cosa fare, la seconda nel decidere come farlo professionalmente.

Ogni organizzazione ha una diversa prospettiva della crescita: lo sviluppo strategico della Oak Foundation si è svolto in modo progressivo nel corso degli anni. Ognuno di noi ha fatto crescere la Fondazione nell’egida di un’infrastruttura comune. Sotto questo ombrello strategico, ogni programma si è sviluppato separatamente, un vantaggio che ha permesso a ogni membro della famiglia di concentrarsi sulla sua area di interesse.

 

Come avete scelto di focalizzarvi sui vostri programmi principali?

È stato un procedimento relativamente semplice che abbiamo condotto grazie a una consulenza professionale. Ogni membro della famiglia ha iniziato a elencare le problematiche su cui lui/lei avrebbe voluto impegnarsi. In seguito, abbiamo iniziato a restringere il campo fino ad arrivare alle tematiche principali: environment, child abuse, childhood and homelessness, human rights e issues affecting women sono i cinque programmi che abbiamo stabilito nel 1997.

Da questi macro-ambiti d’intervento, abbiamo poi estrapolato gli argomenti specifici. Facciamo l’esempio dell’ambiente, più semplice per me perché è il programma del quale mi occupo personalmente. La prima volta che ne abbiamo parlato, ho guardato al mio passato: ho una laurea in biologia marina, quindi aveva senso per me focalizzarmi sugli oceani, qualcosa che potevo ben comprendere. Abbiamo notato che anche il cambiamento climatico stava diventando un tema sempre più rilevante e abbiamo ritenuto che fosse il momento giusto per intervenire. Entrambi erano campi di bisogno, perché non vi erano molti finanziatori in questi ambiti. Si trattava di una nicchia ideale: vi erano spazio, opportunità, e un buon livello di conoscenza interna. Questi sono stati in sintesi i fattori che ci hanno spinto a focalizzarci su questi due temi all’interno dell’area ambiente.

Certamente, vi sono state delle evoluzioni. Ad esempio, prima lavoravamo per il cambiamento climatico principalmente negli Stati Uniti e in Europa. Oggi, abbiamo quasi totalmente trasferito la nostra azione in India, Brasile e Cina: sappiamo che il livello delle emissioni in Europa e negli Stati Uniti ha raggiunto soglie preoccupanti, ma in quali Paesi cresceranno di più nei prossimi anni?

 

Quali sono i criteri principali adottati per scegliere i vostri beneficiari?

Se si guarda alle nostre erogazioni, si può notare una grande percentuale di partnership pluriennali, una pratica per noi abbastanza comune dato che normalmente prevediamo finanziamenti della durata di tre anni. Quindi, molte nostre decisioni annuali sono concentrate sulla scelta tra supportare una nuova ONG o continuare con una già presente nel nostro portafoglio, passando attraverso alcuni filtri. La prima domanda che ci poniamo è: è compatibile con la nostra strategia e il nostro focus geografico?

La seconda: quanto dobbiamo investire per ottenere un impatto significativo? Se un soggetto ha una buona strategia e lavora in una zona che risponde al nostro interesse, esaminiamo l’organizzazione e valutiamo se è in grado di implementare la strategia (in termini di assets, governance, altri finanziatori in essere, ecc.).

Infine, consideramo cosa possiamo fare con gli altri soggetti, e cosa possiamo apprendere l’uno dall’altro. Lavoriamo a stretto contatto con più di dieci fondazioni, e ci confrontiamo su beneficiari, strategie, opportunità, e sulle pratiche risultate efficaci (what works and what doesn’t). Impariamo molti dai nostri pari per migliorare il nostro operato.

Quando approcciamo un campo nuovo, solitamente ci muoviamo attraverso i cosiddetti “learning grants” – donazioni contenute, per imparare e valutare se si tratta di qualcosa in cui vogliamo impegnarci a un livello più alto. Ci deve piacere la strategia, ma anche i partner che la implementano: possiamo trovare la strategia migliore del mondo, le migliori tattiche, ma poi tutto dipende da chi opera sul campo. Ci sono state alcune occasioni nelle quali, insieme ai partner, abbiamo creato nuove organizzazioni, perché abbiamo deciso che cià che già esisteva non era sufficiente e bisognava fare qualcosa di più. Non si tratta di diventare una fondazione operativa ma, se non vi sono altre opzioni, valutiamo la possibilità di unirci ad altri fondatori per creare nuove organizzazioni.

 

Quali sono i piani per il futuro, e le sfide che vi aspettano?

Il clima è una problematica notevolmente sottovalutata nella filantropia in generale: solo circa il 2% della filantropia negli U.S.A. è diretta verso il cambiamento climatico. Anche se abbiamo avuto un forte impatto negli ultimi dieci anni, abbiamo bisogno di più fondazioni che si impegnino – il 2% semplicemente non è sufficiente per stare al passo con la dimensione e la natura del problema. Occorre coinvolgere tutti i settori, nel caso della filantropia si tratta di un’area che non ha ricevuto l’attenzione necessaria. Una delle cose sulle quali sto lavorando è quella di impegnare altri filantropi e fondazioni per capire come potrebbero impegnarsi su questa problematica.

Il cambiamento climatico non è un problema ambientale ma umano. I più poveri a livello globale saranno anche i più colpiti dai cambiamenti che stanno giungendo, quindi è un problema che avrà effetti negativi sulla maggior parte di ciò in cui siamo attivi come filantropi– che si parli di salute, educazione, bambini, diritti umani. È un tema sistemico, e abbiamo bisogno di più partner e persone che propongano soluzioni.

 

Possiamo sottolineare questa problematica: poche fondazioni lavorano sul cambiamento climatico. Per quale motivo?

Una delle possibili motivazioni per cui le fondazioni non si impegnano per sconfiggere il cambiamento climatico è la dimensione del problema: è talmente vasto che è difficile anche decidere da dove iniziare.

In secondo luogo, è una problematica molto disgregante: diventa sempre più complicato impegnarsi su un argomento sul quale la politica prende posizioni spesso opposte.

Inoltre, un altro fattore che rende l’argomento controverso è l’incombente interesse economico. L’industria del carbone, delle automobili… vi è un numero elevato di settori che sono resistenti al cambiamento.

Ciò che è cambiato oggi è l’opportunità di creare un impatto, un’opportunità molto più chiara in confronto a dieci anni fa. Per la prima volta in Europa, l’energia rinnovabile generati tramite il vento, la biomassa e la luce del sole ha superato i livelli di produzione attraverso il carbone – sta diventando sempre più economica e diversi Paesi cominciano a vederla come la scelta. Abbiamo gli accordi di Parigi alle spalle; penso che sia il momento giusto, è l’ora di coinvolgere più fondazioni e accelerare l’impatto.

Parlerò di un progetto che ci sta piacevolmente sorprendendo, una sorta d’investimento che stiamo portando avanti. In poche parole, si tratta di un supporto alla European Climate Foundation per porre fine all’uso del carbone e sostituirlo con fonti di energia pulita. La maggior parte delle azioni che EFC porta avanti consistono nell’erogazione di fondi a un network di ONG ambientali e non, per mettere sotto pressione il sistema per porre fine alla produzione di carbone. Ad esempio, uno dei partner che collabora con EFC è un team di esperti legali, che lavora in Polonia per aiutare il governo a rispondere agli standard imposti in termini di qualità dell’aria. Si tratta di una campagna che va avanti da qualche tempo, ma che ora sta raggiungendo un nuovo livello, perché l’Europa deve smettere di usare il carbone nei prossimi 10-20 anni.

L’Europa deve aprire la strada: siamo una delle aree più ricche al mondo. Se non lo cominciamo noi, come possiamo aspettarci che lo facciano altri Paesi?

 

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