L’approfondimento: il caso della Fondazione Prosolidar

L'intervista del Centro Studi Lang con il creatore della Fondazione analizza nascita, governance e approccio di un modello unico al mondo

La Fondazione Prosolidar Onlus rappresenta, pariteticamente, tutte le Organizzazioni sindacali del settore del credito, le imprese aderenti all’ABI e l’ABI stessa. Essa è la prima e unica esperienza a livello internazionale di ente finanziato attraverso il match-gifting, cioè la condivisione del contributo in misura uguale tra lavoratori e imprese.
Abbiamo approfondito con Edgardo Maria Iozia, fondatore della Fondazione, le modalità di intervento di una realtà che ad oggi vanta un portafoglio di 110 progetti attivi a livello nazionale e internazionale.

Può illustrarci il modello di Fondazione Prosolidar? Com’è nata questa realtà che si basa su una governance tanto peculiare?
Il tipo di attività che sta svolgendo Prosolidar ha radici abbastanza lontane: i sindacati dei bancari e successivamente le banche hanno cominciato a partire dagli anni ’80, in occasione di eventi drammatici mondiali, ad avviare raccolte fondi specifiche su progetti mirati in risposta all’emergenza, devolvendo ore di lavoro in favore di organizzazioni sul campo.Il primo progetto venne realizzato nel 1981 con Unicef in Mali.

Ma comprendemmo presto che era necessario raggiungere maggiore efficienza nel processo, e potenziare le fasi di gestione-monitoraggio-rendicontazione progettuale: tra il lancio della campagna, la raccolta di fondi, il trasferimento… passavano anche 6 mesi/1 anno, più che una risposta all’emergenza diventava uno stimolo alla ricostruzione.Nel 2004, proposi allora di scrivere nella proposta contrattuale la costituzione di un fondo che potesse rispondere prontamente alle cicliche emergenze, modificando inoltre le modalità di coinvolgimento delle aziende che fino ad allora avevano partecipato alla raccolta su base volontaria.

Da quel momento se i lavoratori avessero raccolto 100, l’azienda avrebbe matchato la somma obbligatoriamente. Questa è un’esperienza unica: non esiste al mondo, anche in altri settori, un modello analogo. Nel 2005, anche sulla spinta dell’emergenza tsunami, prese vita concretamente il Fondo Nazionale del Settore del Credito per Progetti di Solidarietà: l’impulso veniva dalla immediatezza della catastrofe, ma l’obiettivo strategico era di lungo respiro nell’ottica di trasformare il modello in una realtà stabile. Fino allora, su base volontaria, avevamo raccolto circa 30.000 adesioni tra i lavoratori che apportavano una somma di 300.000€ l’anno – non poco, ma molto meno dell’effettivo potenziale di 4-5 milioni. Decidemmo di forzare la mano e introducemmo il silenzio-assenso: con un accordo sindacale con l’ABI, il lavoratore avrebbe dovuto rifiutare esplicitamente di corrispondere questa “quota solidale”.

Una forzatura, è vero, ma che si è dimostrata efficace: da 300.000€ l’anno siamo passati a 1 milione, con un carico irrisorio per i lavoratori (circa 50 centesimi al mese) –  risultati che portarono alla nascita di Prosolidar; inizialmente pensato per facilità di comunicazione, il nome divenne effettivo con la nascita della Fondazione a cui trasferimmo tutte le attività e i fondi disponibili. La governance è rimasta identica a quella del Fondo con un consiglio di amministrazione composto da 4 sindacalisti e 4 rappresentanti delle imprese.

Da quel momento se i lavoratori avessero raccolto 100, l’azienda avrebbe matchato la somma obbligatoriamente. Questa è un’esperienza unica: non esiste al mondo un modello analogo.

Nonostante la forte propensione alla cooperazione estera, siete presenti anche in Italia… 
In questi anni abbiamo attivato 170 progetti, di cui 110 ancora in essere. Abbiamo cercato di equilibrare l‘intervento tra Italia ed Estero: all’inizio sono stati soprattutto progetti internazionali, anche perché è chiaro che nei Paesi in via di sviluppo il valore dell’intervento si moltiplica a dismisura.  È esemplificativo il caso di un progetto che ci ha visto coinvolti nella costruzione di una piccola scuola in Mozambico per 1.500 bambini, impiegando un totale di 35.000€! Con l’inizio della crisi negli ultimi anni abbiamo rafforzato la componente italiana – con grande difficoltà…

Dai dati ISTAT, l’indice di povertà risulta maggiore nelle Regioni meridionali, eppure siete più attivi nel nord Italia… come se lo spiega?
Molto semplicemente: la verità è che la qualità dei progetti che ci sono stati presentati in Italia, e soprattutto al Sud, è di bassissimo rilievo. Mettendo insieme una vocazione al sostegno di piccole ong ma sempre con il diktat della qualità progettuale abbiamo notato che dal Sud le proposte non sempre corrispondevano ai nostri criteri che si basano su:

  • sostenibilità (il nostro obiettivo è evitare di avventurarci in progetti che vadano a concludersi nell’orizzonte temporale della nostra collaborazione senza un piano di sviluppo definito) e
  • ottimizzazione delle risorse allocate.

Nel nord Italia le ong si sono dimostrate più efficienti, hanno presentato proposte più significative e, sinceramente, anche lo standing delle organizzazioni con cui ci siamo confrontati è stato decisamente più significativo.

Qual è il vostro approccio alla creazione di impatto sociale?
Noi ci poniamo in un’ottica di sostenibilità che decliniamo in termini di: durabilità nel tempo dei progetti, valutazione d’impatto, assessment del valore generato in relazione alle risorse conferite. Ovviamente bisogna focalizzarsi sugli outcome e non ragionare in termini di output: non importa quante aule costruisci in una scuola ma se poi il villaggio è in grado di sostenere lo stipendio di un maestro. Il rischio degli interventi, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, è che rimangano fini a sé stessi o si esauriscano nel breve termine per la mancanza di accordi precisi con le autorità e comunità locali. Quindi il nostro approccio nell’avviare un progetto non include solo un impact assessment – fondamentale – ma anche una valutazione su un orizzonte temporale di circa 10 anni.

Ci poniamo in un’ottica di sostenibilità. il nostro approccio nell’avviare un progetto non include solo un impact assessment ma anche una valutazione su un orizzonte temporale di circa 10 anni.

Molte realtà, soprattutto a livello internazionale, cominciano a ragionare in ottica di generazione di ritorni sia sociali che economici. Voi come vi ponete su questo tema?
Noi siamo in un’ottica di creazione di valore, valore che però non riportiamo a casa. Le risorse disponibili che generiamo attraverso attività economiche (nel piccolo artigianato, nell’agricoltura, col microcredito…) serve per autonomizzare i gruppi che intendiamo far crescere.La generazione di valore contribuisce alla sostenibilità e l’ottica è di reinvestire eventuali risorse generate nelle organizzazioni che sosteniamo, senza rientro economico, spesso in modalità cross-progettuale.

Un esempio: in un progetto in un villaggio del Burkina Faso abbiamo stipulato un accordo in modo che il 10% del reddito del nostro investimento in campo agricolo venga riversato in un fondo comunitario del villaggio. Questo dovrà servire per esigenze primarie di carattere medico e per sostenere per la scuola che abbiamo costruito nell’ambito di un progetto educazione – per comprare i libri per i bambini, i pranzi per la mensa… in modo che i genitori non abbiano difficoltà a mandare a scuola i loro figli.Avere un fondo comunitario che deriva da attività lavorative e dall’intervento di sviluppo significa orientare la comunità all’idea – molto difficile da radicare in quel Paese – di costruzione di meccanismi partecipativi solidali.

 
C’è un’area progettuale che vi sta particolarmente a cuore?
Direi il tema della serenità alimentare, nostra peculiarità, che si basa sui temi della sovranità alimentare, della salute e della sicurezza (3s).
La sicurezza: un tema molto centralizzato da grandi istituzioni internazionali come la FAO che però, a mio avviso, si porta indietro una serie di incongruenze e problematiche – la più forte è la mancata distinzione tra cereali OGM o meno, per citarne una.
La sovranità alimentare: in termini di mantenimento delle tradizioni e delle culture/colture tradizionali sostenendo la conservazione dei prodotti locali. Per diversi motivi, in primis il tema del km0, il secondo dell’essere sovrani e non dipendere dalle importazioni.
La salute infine per quanto riguarda ad esempio i metodi di coltivazione e l’adeguatezza degli strumenti di lavoro, per il benessere del coltivatore stesso e dei consumatori.La serenità alimentare deve comprendere tutte queste caratteristiche: certezza, qualità e sostenibilità del cibo per presenti e future generazioni, driver che da soli sono positivi ma non bastano. Un coltivatore che utilizzi pesticidi nei propri campi vanifica il tema del km0 e rischia di intossicarsi senza le giuste protezioni, la produzione di cibo sano ma in quantità insufficienti per il mantenimento non risponde al fattore della sovranità.    

Il modello di governance unico, il tema delle 3s… Sono alcuni dei fattori distintivi del modello Fondazione Prosolidar: ritiene ce ne siano altri?
Per prima cosa direi l’approccio: il nostro modello non si ferma alla sola erogazione.  Cerchiamo di mettere quanto possibile a disposizione le nostre abilità e i nostri asset, in un percorso d’intensa collaborazione.
Ad esempio, avendo alle spalle un meccanismo d’indirizzo rigoroso, abbiamo aiutato diverse ong – soprattutto quelle piccole – a riflettere sui loro meccanismi gestionali per adeguarli a modelli più efficienti. Come nel caso della collaborazione avviata in Sicilia con Libera: un progetto importante che però, a nostro avviso, non coglieva un’opportunità di serenità alimentare integrata col territorio in grado di mantenere un forte ancoraggio alla tradizione culturale. Cominciammo a discuterne e arrivammo a un’intesa, modificando radicalmente il progetto e orientandolo verso l’apicoltura per riportare in Sicilia l’ape nera, praticamente estinta per la comparsa di specie tropicali più aggressive.

Il secondo fattore distintivo si ritrova in un’organizzazione molto leggera, basata molto sul fattore personale e sull’assenza di costi di struttura: non facciamo attività di fundraising perché siamo basati su un diverso modello di raccolta, né siamo impegnati in sforzi promozionali. Fondazione Prosolidar ha addirittura deciso di non avere una sede e di operare in telelavoro. Siamo la prima fondazione digitale!

Il nostro modello non si ferma alla sola erogazione.  Cerchiamo di mettere quanto possibile a disposizione le nostre abilità e i nostri asset, in un percorso d’intensa collaborazione.

Quali sono le prospettive di sviluppo?
La mia ambizione sarebbe replicare il nostro modello: lo scorso anno abbiamo organizzato un grande convegno nazionale per i dieci anni dagli accordi sindacali dal titolo “Unici al mondo…(per ora)”. Auspichiamo di poter moltiplicare la nostra esperienza nel mondo del lavoro, creando un grande fondo nazionale che possa essere gestito dalle confederazioni e replicando l’approccio di Prosolidar alla massima scala. Sarebbe una buona possibilità per far affluire fondi aggiuntivi al settore della cooperazione e alle ong, in un momento in cui abbiamo un estremo bisogno del loro lavoro.

Vai al sito di Fondazione Prosolidar Onlus

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