Aumentare l’efficacia delle fondazioni: la filantropia che mette al centro dati e relazione

Il Center for Effective Philanthropy analizza come le fondazioni stiano operando per aumentare il proprio impatto sociale attraverso la valutazione della propria organizzazione e del lavoro con gli stakeholder

Aumentare l’efficacia delle fondazioni: la filantropia che mette al centro dati e relazione

Sono circa 87.000 le fondazioni erogative negli Stati Uniti, che elargiscono $60 miliardi l’anno (il 17% del giving privato totale negli USA) e detengono un patrimonio di $865 miliardi. A fronte di questi numeri, però, sono solo 3.000 le fondazioni che erogano annualmente almeno $5 milioni.

É quest’ultimo sottogruppo il focus del Center for Effective Philanthropy (CEP), organizzazione non profit nata nel 2001 con lo scopo di aumentare l’efficacia deifunders partendo da un presupposto: le fondazioni spesso non hanno accesso a informazioni basilari per aumentare l’impatto del proprio lavoro.

Nella nostra intervista Kevin Bolduc, Vice President – Assessment & Advisory Services del CEP ci guida attraverso alcuni temi che stanno delineando l’operato delle fondazioni statunitensi e illustra le sfide per formare e sviluppare relazioni di successo tra funders e grantees.

Da quale spunto ha mosso i primi passi il CEP e come si è sviluppato negli anni?

L’idea è stata lanciata in origine da due imprenditori sociali, Michael Porter dell’Harvard Business School eMark Kramer di FSG, a diverse fondazioni – e tre in particolare hanno subito intuito il potenziale di questo movimento, The Atlantic Philanthropies, Surdna Foundation, e la David and Lucile Packard Foundation.

Attraverso una donazione iniziale, Phil Buchananvenne scelto come presidente del CEP nel 2001. Anch’io entrai nel team quell’anno, per quella che all’epoca era la nostra attività fondamentale – verificare come i leader delle fondazioni stessero valutando la propria performance in qualità di erogatori, invece che misurare semplicemente il lavoro delle non profit sostenute.

Da questi primi studi cominciammo a creare una serie di indicatori, ricerche e strumenti affinché le fondazioni potessero quantificare la propria efficacia. Così è cominciato il nostro lavoro, che da allora si è espanso continuamente con l’apertura di uffici a Cambridge (Massachusetts) e San Francisco (California), e ci ha portato a operare con fondazioni in tutto il mondo. Uno dei nostri primi passi è stata la creazione del Grantee Perception Report (GPR), studio che permette di raccogliere rigorosamente i feedback dei propri grantees e di confrontare gli operati delle fondazioni.

Ritiene che il concetto di filantropia results-based stia guadagnando terreno nei donatori?

Le opinioni a questo proposito sono contrastanti – a mio avviso è così. Quando il CEP ha iniziato 15 anni fa era incredibilmente complicato convincere le fondazioni a misurare la propria efficacia paragonandosi con altri soggetti: molti funders percepivano il proprio lavoro come “unico”, al punto che sarebbe stato insensato creare dei benchmark rispetto ad altre fondazioni. Adesso le fondazioni fanno sempre più confronti tra di loro e cercano dati e buone pratiche di comprovata efficacia da replicare. La domanda di questo genere di informazioni è aumentata in modo vertiginoso: se guardo ai nostri dati nel tempo, è chiara la crescita nel numero e nella tipologia di fondazioni che collaborano con il CEP – anche al di fuori degli Stati Uniti; sempre più fondazioni inoltre raccolgono dati sulla propria performance e li condividono pubblicamente.

Credo quindi che si stia verificando un mutamento positivo nei comportamenti erogativi, anche se vorrei che i progressi fossero maggiori. Facciamo qualche esempio. Si parla molto di come le fondazioni dovrebbero fornire un supporto alle spese operative dei propri beneficiari – ma anche se alcune fondazioni hanno compiuto passi avanti, l’ammontare complessivo di supporto ai costi di gestione non è cambiato così tanto negli ultimi anni, almeno secondo i dati del Foundation Center.

Inoltre c’è ancora un disallineamento tra le percezioni delle fondazioni e dei propriograntees per quanto riguarda il supporto a un capacity building teso alla valutazione dell’impatto: se vogliamo che la filantropia si muova sulla base di evidenze di efficacia, allora è necessario sostenere le non profit affinché raccolgano dati di qualità. In una recente ricerca, il 75% delle fondazioni ha dichiarato di supportare le non profitnella raccolta di dati e valutazione dei risultati attraverso risorse economiche e supporto non monetario. Ma il 75% delle non profit ha smentito, riportando di non aver ricevuto questo genere di aiuto!

Nella mia visione forse ottimistica la filantropia sta facendo progressi, ma soprattutto sul lato dei funders la strada è ancora lunga

Oltre alla parte di valutazione, il CEP conduce altre ricerche sulla performance delle fondazioni. Quali sono i riscontri più significativi che avete registrato in questi ultimi anni?

Due in particolare – il primo viene da una ricerca che abbiamo appena pubblicato intitolata “The Future of Foundation Philanthropy: The CEO Perspective”,  in cui abbiamo intervistato i CEO delle fondazioni sulla loro visione del potenziale della filantropia, ottenendo risultati molto interessanti: circa 2/3 del campione ritiene che le fondazioni potrebbero fare una grande differenza nella società, ma solo il 10% crede che questo avvenga al momento. Si registra quindi una sorta di “gap aspirazionale” tra i risultati attuali che i CEO percepiscono e il potenziale che ritengono raggiungibile. Inoltre, le barriere attuali, gli ostacoli per conseguire maggiore impatto sociale sono fattori per lo più sotto il loro controllo – ad esempio la mancanza dichiarezza di scopo, la presenza di troppi obiettivi, la necessità che le fondazioni si assumano maggiori rischi nel proprio lavoro e la possibilità di partnership inespresse.

Un altro argomento sotto scrutinio da oltre dieci anni è il bisogno per le fondazioni di costruire relazioni di successo con i propri grantees. Quello che ormai appare chiaro è lapossibilità di prevedere la qualità della relazione funder-grantee attraverso la valutazione di alcuni fattori tipici, come ad esempio la trasparenza da parte delle fondazioni sul proprio operato e la profondità della conoscenza del contesto socio-economico delle non profit sostenute e dell’ambiente in cui esse si muovono.  Si tratta di aspetti su cui si può investigare e che l’ente erogatore può potenziare – è proprio a questo che mira il nostro Grantee Perception Report.

Riscontriamo una sorta gap aspirazionale tra i risultati attuali che i CEO percepiscono e il potenziale che ritengono raggiungibile

Quali sono le richieste più frequenti che ricevete dalle fondazioni che assistete?

Forse le domanda più frequente è: “Qual è il miglior modo in cui un funder può creare impatto?” Tutti vorrebbero la risposta a questa domanda. Il problema è che non c’è una singola risposta. Il miglior approccio dipende sempre dalle scelte che vengono compiute in termini di obiettivi, ed è condizionato dal contesto in cui il funder opera e dai propri valori.

Facciamo un esempio. Ci chiedono spesso quale tipo di assistenza dovrebbe essere fornita da un ente erogatore oltre all’erogazione monetaria. Ma i nostri dati parlano chiaro: non esiste una singola tipologia di asset non monetario che va sempre bene. Infatti, quando le non profit ricevono un solo metodo di supporto non monetario  ( ad esempio la possibilità di networking) in aggiunta alle risorse economiche, la loro percezione del sostegno ricevuto non varia. Se invece una fondazione fornisce varie tipologie di assistenza non economica, il grantee percepisce il sostegno che gli viene offerto per operare al meglio. Questo tipo di assistenza non monetaria aggregata, che è in grado di fare la differenza, richiede però al funder maggiori impegno e risorse, in termini di tempo e competenze.

Ritiene ci siano delle best practice tra le fondazioni statunitensi in questi termini?

Al CEP cerchiamo sempre di non dire che ci sono fondazioni “ottime” o “pessime”. Ma sì, profiliamo le fondazioni su diversi aspetti – per esempio per quanto concerne i risultati e la condivisione delle proprie valutazioni. Ad esempio, la William and Flora Hewlett Foundation in California è una realtà percepita in modo estremamente positivo dai propri grantees per l’impatto incredibile che sta creando in diversi ambiti e per come sta informando le politiche pubbliche. Un altro caso di successo in termini di ottime relazioni con i propri beneficiari è la Wilburforce Foundation di Seattle, che combina una chiara linea strategica, al focus sul capacity building, e alla grande attenzione alla qualità delle interazioni.

Per quanto riguarda l’impact investing e le pratiche di investimento sociale – sono modalità che si stanno diffondendo tra gli enti erogatori statunitensi?

In verità anche se diverse fondazioni credono che l’impact investing possa essere uno strumento importante, l’ammontare economico che stanno investendo è ancora estremamente ridotto. Se vogliamo citare alcuni dati, le ricerche del CEP dimostrano come circa il 50% delle fondazioni stia portando avanti progetti di impact investing o abbia una seria intenzione di avviarli. A fronte di questo numero, però, in media solo il 2% dei loro patrimoni e lo 0.5% dei budget di programma sono dedicati all’impact investing.

Nella nostra ultima indagine, abbiamo chiesto ai CEO di fondazioni quali pratiche ritengono più promettenti affinché le fondazioni raggiungano il massimo impatto: solo il 30% dei rispondenti ha scelto l’impact investing, mentre ad esempio il 69% ha preferito “l’importanza di apprendere dalle esperienze dei beneficiari che le fondazioni vogliono sostenere”.

Si parla tantissimo di impact investing tra le fondazioni, ma il livello di azione è ancora basso

Un’ultima domanda: vede delle nuove sfide per le fondazioni a seguito delle elezioni 2016?

In realtà è una domanda che faremo ai CEO non profit molto presto. Per quanto mi riguarda, credo che alcune delle storie degli ultimi dieci anni di maggior successo delle fondazioni siano a rischio a casa del nuovo ecosistema politico. Basta considerare il lavoro della Robert Wood Johnson Foundation e di molte organizzazioni che operano in ambito sanitario, e che hanno fortemente contribuito all’Affordable Care Act (oObamaCare come è conosciuto). La nuova amministrazione ha reso chiaro che si tratta di una riforma che vuole abolire. Oppure consideriamo il lavoro di tante organizzazioni del settore sociale che portano avanti cause civili come i matrimoni gay o i diritti dei migranti… i segnali non sono positivi.

Il lavoro di molte fondazioni verosimilmente passerà da offensivo a difensivo, in altre parole potrebbero concentrarsi sul mantenimento dei propri progressi piuttosto che spingere per conseguire nuovi risultati. Ovvio, per alcune realtà la nuova amministrazione potrebbe essere un segnale positivo – quindi non credo che le reazioni siano univoche. Ritengo però che ogni fondazione dovrebbe riflettere su come il nuovo ambiente politico potrà influenzare il suo lavoro e se sia il caso di riconsiderare la propria strategia organizzativa.

Per ulteriori informazioni: http://www.effectivephilanthropy.org/

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