Paolo Nicoletti: “Il Social Impact Investing può creare grandi benefici ma bisogna diffonderne la cultura e dotarsi di strumenti idonei”

Il vice Presidente di Etimos Foundation nella Faculty del III Corso in Social Impact Investing (8-9 ottobre)

Paolo Nicoletti: “Il Social Impact Investing può creare grandi benefici ma bisogna diffonderne la cultura e dotarsi di strumenti idonei”

Presidente del Consorzio Etimos e di MxIT – Microcredito per l’Italia, è vice Presidente di Etimos Foundation che in 25 anni ha realizzato investimenti sociali per oltre 120 milioni di euro in 30 Paesi, tra cui l’Italia, sostenendo 400.000 persone. 

Qual è la situazione attuale in Italia per l’impact investing e quali progressi vede negli ultimi anni? Cosa manca per renderlo mainstream?

Credo che ormai la vicenda legata agli investimenti a impattorappresenti bene una tipica vicenda nazionale, più argomento di discussione accademica che di effettiva esperienza sul campo: se ne parla tanto, si fanno grandi proclami, ma ci sono poi poche attività realizzate efficacemente e nel pieno spirito dello strumento. Dobbiamo passare dalla fase d’innamoramento del concetto in sé, alla  realizzazione di progetti concreti. E prima di tutto serve chiarezza.

Sicuramente è evidente l’opportunità offerta da questo tipo di strumenti per assicurare livelli dignitosi di welfare, visto il progressivo ritiro dello Stato; e sicuramente si avverte una difficoltà nel calare una struttura d’investimento tipicamente di matrice anglosassone in un contesto come il nostro dove, per parlare per esempio di Social Impact Bond (SIB), serve un ruolo della Pubblica Amministrazione attivo e consapevole, che finora non vedo.

A mio avviso sono due i problemi principali, il primo è fortemente culturale: spesso ci si scontra con la difficoltà nell’immaginare investitori privati coinvolti in qualcosa che per molti deve essere appannaggio del settore pubblico, almeno secondo un certo tipo di tradizione politica. In secondo luogo avverto ancora poca chiarezza nel trovarestrumenti idonei. Tutti vogliono fare investimenti a impatto, ma quando trovi un investitore privato, la difficoltà consiste nell’individuare l’universo investibile da proporgli, perché manca quel supporto alla quantificazione del risparmio generato per la collettività. Questo è un ruolo che spetta al pubblico ed è proprio questo il principale fattore che manca per far affermare il concetto d’investimento a impatto: certificare e riconoscere il risparmio per collettività e territorio. Il compito del pubblico dovrebbe essere quello di paracadute finale, riconoscendo un rendimento agli investitori o svolgendo una funzione di garanzia, per bilanciare le esigenze del privato e quelle dell’operatore che materialmente gestisce il processo e che si troverebbe altrimenti con un doppio rischio. Oppure occorre accettare uno sviluppo dell’investimento in due fasi: una prima fase, in cui l’investitore privato e l’operatore accettano si assumersi un rischio diretto, ne misurano l’impatto generato nel territorio (o nel settore) individuato, e solo in una seconda fase (o in parallelo) si rivolgono ad una Pubblica Amministrazione per far emergere e condividere opportunamente il dividendo generato.

Quale potenziale per l’imprenditoria sociale anche alla luce delle riforme?

Si tratta di una riforma, assai necessaria, che recepisce parte delle esigenze all’interno della più generale riforma sul Terzo Settore. Un po’ di nuova linfa anglosassone non guasta in termini di accountability, trasparenza, pubblicazione dei bilanci; tutti aspetti in cui il Terzo Settore italiano non sempre si è particolarmente distinto.  Un passo positivo dunque ma con un caveat: ogni buona riforma deve accompagnarsi a un processo culturale e di consapevolezza sia negli operatori pubblici che privati. Come quanto emerso nello scandalo relativo a Mafia Capitale purtroppo dimostra: se non si affrontano certi nodi ci si ritrova in situazioni di collusione pubblico-privato, anche quando il privato è socialmente orientato.

Diciamo quindi che siamo ancora “tra color che son sospesi”: se si va verso uno scenario in cui l’impresa sociale mira ad assicurare beni pubblici in una logica d’impact investing, dobbiamo essere consapevoli che stiamo ragionando in termini di un diverso welfare, in un’ottica di co-progettazione dell’intervento pubblico-privato.

Quali caratteristiche presentano i modelli di business investibili nella vostra esperienza? 

Per noi è importante proporre sempre investimenti con obiettivi molto chiari e ovviamente orientati alle nostre attività (i.e. accesso al credito a fasce escluse nel contesto nazionale e internazionale). Sicuramente le caratteristiche di scalabilità e replicabilità del modello sono molto importanti, anche se, nel tipo di contesto internazionale che abbiamo scelto, la replicabilità è un elemento che non sempre possiamo gestire, a causa dei territori diversi in cui operiamo. Nel consesso nazionale invece si tratta di caratteristiche che riusciamo a valutare meglio.

Infine, un lato che tipicamente influenza la facilità di raccolta di risorse da investire riguarda la componente emotiva: ad esempio, in situazioni di post-emergenza è più facile recuperare risorse da convogliare su attività specifiche. Altrimenti è più complicato, sia per risorse grant sia soprattutto per capitale di investimento (a mio avviso l’elemento decisivo). In Italia, abbiamo infatti poca dimestichezza (oltre che una regolamentazione non certo facilitante) nella raccolta di capitale (sociale) paziente che accetti magari un ritorno nell’investimento meno elevato di quello di mercato, a favore di un impatto sociale generato nel territorio. Questo tipo di risorse sono per lo più percepite come risorse da raccogliere “a fondo perduto”, piuttosto che come fonte di investimento, che può generare anche un ritorno economico per chi le offre.

Nel panorama italiano le imprese possono avere un ruolo nell’impact investing? Sono presenti esempi cui ispirarsi?

Le imprese possono ottenere grossi vantaggi, grazie alla possibilità d’innovazione generabile, ma anche nell’aumentata coesione conseguibile ad esempio attraverso investimenti nella filiera dell’azienda.  Il problema è ancora una volta di cultura: quando proponi un’operazione del genere, devi capire chi è l’interlocutore: se l’accento viene posto sul ritorno economico stai parlando alla parte finance, se calchi sulla componente impatto sociale l’interlocutore è la CSR e la parte che si occupa del rapporto con le charity. Il problema è che in mezzo non c’è nulla e questo ancora una volta per un problema di cultura.

L’esempio positivo più eclatante è quello di Renzo Rosso (fondatore del marchio Diesel e presidente di OTB – ndr)  con il progetto di microcredito lanciato per affrontare il post-terremoto in Emilia. Ma esistono altri casi, ad esempio quello che riguarda alcuni circoli dei Lions che hanno sviluppato un’iniziativa molto simile, creando un fondo di garanzia per start up di piccole imprese in Veneto. Le imprese possono giocare un ruolo molto importante, è evidente che a noi mancano alcuni strumenti fondamentali: nel mondo anglosassone, tipicamente si costituisce un trust, dove i privati che vogliono intervenire fanno confluire risorse; nel contesto italiano non c’è una normativa specifica sul trust e la parola stessa evoca concetti di elusione e di non trasparenza, l’esatto opposto del concetto originario. Nella nostra esperienza siamo riusciti a portare a termine alcune buone operazioni con stakeholder privati proprio attraverso il trust, perché abbiamo interagito con investitori educati a questo tipo di strumenti, altrimenti ci si scontra con forti percezioni negative, difficoltà di comprensione e paura.

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