La filantropia che parte dai dati: dall’accountability all’impact-ability
L’intervista con Jacob Harold su come il “results-based giving” stia progressivamente guadagnando terreno tra gli enti erogatori
20 Dicembre 2016
Uno dei principali capitoli della Legge 6 giugno 2016, n. 106 si concentra sulla creazione di un registro nazionale delle organizzazioni non profit che dovrebbe essere disponibile presso il Ministero del Lavoro e accessibile pubblicamente online.
Se l’output finale del processo – e conseguentemente la possibile crescita di accountability del settore sociale italiano – potrà essere chiaro solamente con l’emanazione dei decreti attuativi, negli Stati Uniti è già disponibile uno strumento potente per rendere informazioni sulle non profit registrate disponibili a tutti e consentire un approccio più ragionato alla filantropia.
Ne discutiamo con Jacob Harold, CEO di GuideStar e Leap Ambassador, per approfondire lo state del settore sociale americano e i trend che stanno delineando il giving individuale e delle fondazioni.
GuideStar opera come collettore e curatore di dati per rendere la filantropia più efficace. Quali organizzazioni vi seguono maggiormente e con quali obiettivi?
In realtà i nostri beneficiari hanno subito un’evoluzione nel corso dei nostri 22 anni di storia: quando GuideStar è stato creato credevamo che la nostra audience principale fossero i donatori individuali che cercavano di decidere a quali non profit donare. Nel tempo abbiamo capito che, anche se per noi costituiscono un target importante, la maggioranza dei nostri utenti non erano cittadini in cerca di conferme sulle proprie elargizioni ma professionisti che utilizzavano le nostre risorse nel loro lavoro.
La nostra audience si compone di quattro categorie in particolare: i responsabili del grantmaking nelle fondazioni; giornalisti in cerca di approfondimenti sul settore sociale; professionisti come banker e avvocati che operano in vece dei propri clienti; e infine organizzazioni non profit che vogliono fare un benchmark con i competitor o cercare partner.
Dalla vostra prospettiva privilegiata puoi darci una panoramica del settore sociale americano, per quanto concerne dimensioni e stato dell’arte in un’ottica di accountability?
Il settore sociale USA è molto vasto – e complicato. Complessivamente ci sono circa 1.6 milioni di non profit negli Stati Uniti di cui circa 800.000 registrate come “charitable organizations 501(c)”, status che permette ai donatori di beneficiare della deducibilità sulle donazioni.
Di questo set una parte più ridotta, circa 100.000 organizzazioni, sono responsabili della maggior parte delle attività nel settore: molte delle organizzazioni che forniscono dati extra a GuideStar appartengono a questo cluster. Nel nostro database abbiamo circa 128.000 realtà che condividono almeno qualche dato aggiuntivo, mentre sono 40.000 quelle che rendono disponibili sufficienti informazioni per raggiungere quello che noi chiamiamo il “marchio di trasparenza”, una specie di bollino di qualità che le non profit possono mostrare come segno della propria accountability. Ma se consideriamo il numero di organizzazioni che esprimono in modo molto definito i propri obiettivi e strategia, parliamo di circa 10.000 realtà – 2.000 se ci si concentra su indicatori e metriche qualitative programmatiche per il monitoraggio dei propri progetti.
Sono numerose le organizzazioni trasparenti, ma rappresentano ancora una minoranza. Si vede una crescita, ma mai rapida quanto vorremmo
Quali informazioni raccogliete? C’è stata un’evoluzione nella tipologia e nelle modalità con cui operate?
Sicuramente c’è stata un’evoluzione: la maggior parte delle non profit in USA devono redigere un documento predisposto dal nostro Internal Revenue Service, documento che è di dominio pubblico. Il problema è che non è facilmente consultabile – quindi molto del nostro lavoro inizialmente ha riguardato la facilitazione dell’accesso, digitalizzazione dei moduli e creazione di motori di ricerca. Sono dati molto utili in termini di accountability e trasparenza, ma la maggior parte si concentra su informazioni finanziarie e operative senza soffermarsi sugli obiettivi, strategie, sistemi di misurazione di una non profit – e con pochi elementi per quanto riguarda i meccanismi di governance o le caratteristiche demografiche dello staff e dei beneficiari dell’organizzazione. Si tratta quindi di una fonte utile ma limitata, poiché non racconta tutta la storia. Per questo abbiamo aumentato sempre di più la raccolta di dati direttamente dalle non profit, per due ragioni: in primis per trovare i pezzi mancanti, e inoltre perché i dati IRS fanno riferimento a due anni prima.
Notate dei cambiamenti nei comportamenti dei grantmaker istituzionali a favore di logiche più strategiche di giving?
Ci sono grandi differenze tra i profili dei donatori: molti sono sempre più sofisticati, cercano strumenti come la Theory of Change e vogliono comprendere i sistemi di misurazione utilizzati dalle non profit. Si tratta di un driver che incoraggiamo: riteniamo che sia indice di una filantropia di qualità basata sui dati.
Tra le migliori pratiche citerei di sicuro la Hewlett Foundation, una delle realtà più illuminate negli Stati Uniti se non a livello mondiale. Un altro grande esempio è la Edna McConnell Clark Foundation a New York, innovativa per diverse ragioni: per fare qualche esempio, un profondo orientamento agli outcome che si palesa in un’attività di grantmaking tesa ai risultati di lungo periodo; la grande focalizzazione, con un solo obiettivo istituzionale (lo sviluppo dei giovani di famiglie svantaggiate); infine i grandi sforzi per raccogliere numerosi erogatori in modo da catalizzare le risorse su progetti di collective impact.
Ci sono altri grandi esempi, come la Weingart Foundation a Los Angeles, che in pratica sostiene solo le spese operative dei beneficiari e ha una profonda comprensione dei loro bisogni organizzativi. Altri si concentrano di più sull’uso di nuovi media e tecnologia, come la MacArthur Foundation o la Knight Foundation: anche se non sono così focalizzati sul supporto organizzativo a lungo termine, cercano realmente le leve principali per generare cambiamento.
I modelli di smart giving sono differenti ma hanno in comune alcuni punti: un senso di ambizione; la comprensione che la salute organizzativa dei propri grantee è fondamentale; una forte attenzione alla chiarezza degli obiettivi e alla strategia; e un grande focus sui sistemi di monitoraggio e misurazione dell’impatto
A proposito del giving individuale, quali sono i driver principali che stanno caratterizzando le donazioni di privati?
Il livello di analisi che vediamo più spesso si concentra sulla compliance legale e finanziaria. Sfortunatamente, la parte finanziaria spesso si esaurisce ai costi di gestione, che per noi di GuideStar sono un indicatore relativamente insignificante – per lo meno se considerati da soli.
D’altro canto, notiamo una crescita negli approcci sempre più strategici alla filantropia: un mantra che io uso spesso è “scegliete le cause sociali con il cuore, ma l’organizzazione a cui donare con la testa”. Alcuni donatori vanno anche più in là, come il cofondatore di Facebook Dustin Moskovitz e sua moglie Cari Tuna che sostengono che è necessario scegliere anche la causa solo in base alla razionalità.
Credo che la nostra sfida sia supportare il lato emozionale della donazione per non allontanare i donatori, fornendo loro gli strumenti per sostenere razionalmente le organizzazioni più efficaci. Il nostro obiettivo è focalizzare l’attenzione sui risultati, e per questo abbiamo bisogno di sempre più dati di qualità dalle non profit – sui loro obiettivi, strategie, ToC, sui sistemi di misurazione che adottano e su come li utilizzano. Certamente ci sono dei progressi, soprattutto tra i principali funder istituzionali, e anche in una significativa minoranza di donatori individuali: stiamo andando nella giusta direzione, ma la strada è ancora molto lunga.
In Italia si comincia a parlare più spesso dei lasciti testamentari. Rappresentano un asset importante per il settore sociale negli USA?
I lasciti sono molto frequenti, spinti dai benefici fiscali e da un naturale senso del dovere. Ma quello che sta succedendo sempre di più negli ultimi anni, soprattutto tra le persone più benestanti, è il fenomeno del giving while living – un riconoscimento di quanto la filantropia possa essere coinvolgente ed eccitante, e del fatto che i donatori vogliono essere in vita per vedere l’impatto delle proprie elargizioni. È un trend crescente, ma non credo impatterà in modo negativo sui lasciti testamentari.
Un alto driver interessante, che forse sta accadendo a un livello ancora superiore influenzando i due precedenti, è il desiderio tra le persone facoltose di lasciare ricchezza ai propri eredi – ma non troppa. Credo che questo stia contribuendo sia al giving while living che ai lasciti, in funzione di un desiderio crescente di vedere le proprie risorse impiegate per creare beneficio alla società.
Come disse Warren Buffett: Voglio lasciare abbastanza denaro ai miei figli in modo che possano fare tutto ciò che vogliono ma non così tanto che possano non fare nulla
Per informazioni: www.guidestar.org