Promuovere la “community resilience”: una Theory of Change nel settore corporate

L'intervista a David Nash, Manager della Z Zurich Foundation, dimostra come una fondazione di impresa può operare per generare impatto sociale attraverso una pianificazione robusta ed evidence-based, mantenendo al contempo un costante allineamento con il business della casa madre

Promuovere la “community resilience”: una Theory of Change nel settore corporate

Vorrei iniziare dalle motivazioni che hanno portato alla creazione della fondazione, e da qualche dato. So che utilizzate la Theory of Change e mantenete un stretto rapporto con l’azienda Zurich, come di solito fanno le fondazioni corporate. È cosi? 

Credo che la cosa migliore sia partire dalla storia della fondazione. Nel 1972 il gruppo assicurativo Zurich celebrò il Centenario, e per festeggiare venne istituita quella che venne chiamata la Jubilee Foundation. Aveva un patrimonio davvero esiguo, una donazione erogata dal gruppo, che venne utilizzata all’epoca per finanziare operazioni di modesta scala in Svizzera. Niente di particolarmente strategico, in pratica vennero evase le richieste dei cittadini che chiedevano di risolvere piccole questioni: c’era chi aveva bisogno di fondi per ristrutturare la chiesa, per partecipare al Festival di Lucerna, per sostenere varie cause… La Jubilee Foundation valutava le domande pervenute ed erogava i fondi. Non erano previsti settori di intervento privilegiati. Nel 2008 i vertici di Zurich, insieme ad altri colleghi del gruppo, decisero di utilizzare la fondazione in modo molto più strategico, come parte del dna della nostra azienda – perché Zurich è un’azienda, volendo dotare la fondazione di un ruolo nella società. Di conseguenza, dalla Jubilee Foundation nacque la Z Zurich Foundation.

Ci fu un processo per cambiare il nome dell’organizzazione: il gruppo fece una donazione alla fondazione, a quel punto si stabilirono specifiche linee guida strategiche per le erogazioni, e cominciammo a rivolgerci in modo mirato a settori nei quali avremmo potuto o dovuto investire o realizzare erogazioni, stabilendo tre grandi categorie di destinazione. Una è il disaster management, perché in effetti si tratta di un’area cruciale per l’azienda Zurich, con particolare riguardo ai disastri naturali, che sono in forte crescita, cosicché aveva senso per noi concentrarci su questo. La seconda categoria è rappresentata dalla formazione e ricerca nel settore assicurativo: ci appariva chiaro che come compagnia assicurativa avevamo le competenze per dire la nostra in questo settore e ovviamente per investire nella ricerca che avrebbe potuto essere utile al business e insieme promuoverlo. La terza categoria su cui ci siamo concentrati è – e credo che riassuma anche le precedenti – tutto ciò che ha rilevanza come emergenza sociale, un enorme bacino di potenziali investimenti da cui possiamo attingere. Siamo partiti con alcune partnership di lungo periodo nel settore climatico, iniziando a investire nella ricerca. Nel biennio 2011-2012 Zurich ha dato vita alla sua prima strategia di responsabilità sociale di impresa che ha portato a mutare anche l’approccio della fondazione. Fino a quel punto la responsabilità sociale di Zurich a livello di gruppo si limitava a qualche azione filantropica e ad alcune attività interne volte a incrementare il benessere dei dipendenti.

Nel corso di quei due anni si arrivò a un approccio più strategico, che spinse decisamente la fondazione verso i risultati che volevamo raggiungere; nel 2012 si ebbe così un’altra immissione di liquidità nella fondazione che portò al lancio del Flood Resilience Program. Questo progetto mosse i primi passi nel 2013 e in quello stesso anno si concluse la nostra prima fase, durata 5 anni; avevamo discusso a lungo sul nostro futuro, arrivando alla conclusione che uno dei passi successivi sarebbe stato continuare con il progetto sulle inondazioni, progredendo sulla base dei risultati della fase 1 verso una seconda fase del programma Flood Resilience. Nel corso degli ultimi cinque anni abbiamo riscontrato che il nostro lavoro andava concentrandosi intorno a due elementi: uno è appunto il progetto Inondazioni, che ha catalizzato la maggior parte delle erogazioni in questo lasso di tempo (37 milioni di franchi svizzeri investiti nel programma globale delle inondazioni); l’altro aspetto è rappresentato dallo sviluppo di sempre più stretti rapporti tra i vari uffici Zurich del mondo e le comunità locali, per cui la Fondazione ha costituito quelli che chiamiamo fondi locali. Ad oggi sono 16 I fondi locali attivi nel mondo, e finora circa 30 milioni sono stati impegnati in questi fondi.

I settori in cui investiamo i fondi locali sono principalmente i seguenti: uno è l’empowerment dei giovani e il sostegno alle organizzazioni attive in quest’ambito, con particolare attenzione alle sfide che I giovani si trovano ad affrontare. Per esempio lavoriamo con Junior Achievement in Spagna, dove il tasso di disoccupazione giovanile tocca il 39% della popolazione; molti giovani si trovano fuori dal mercato del lavoro, non maturano le competenze o esperienze necessarie per entrarvi e quindi delle due l’una: o rimangono disoccupati, in mezzo a una strada, o abbandonano il paese, producendo un esodo di massa di giovani. Questo è il problema emerso, e dato che a causa dell’invecchiamento della popolazione molti lavoratori arriveranno tra poco al momento della pensione, le aziende perderanno personale ma faranno molta fatica a trovare forze fresche per rimpiazzare i lavoratori in uscita. Noi lavoriamo con Junior Achievement per cercare di costruire le competenze e lo spirito imprenditoriale dei giovani per aiutarli ad accumulare esperienze utili per entrare nel mercato del lavoro, cosa niente affatto facile. L’altro settore riguarda la salute e il benessere, in particolare per quanto riguarda l’impatto che le malattie o invalidità – per esempio le malattie psichiatriche – hanno sulle opportunità di creare reddito. Il gruppo Zurich ha condotto una ricerca, circa un anno fa, sul rischio legato alla mancanza di tutela del reddito (Income Protection Gaps-IPGs); abbiamo approfondito fondamentalmente gli scenari che attendono coloro che non hanno più reddito, in modo permanente o temporaneo, e l’impatto di questa situazione sulla vita di una famiglia. Da questo studio è emerso che una grave malattia, fisica o psichica, può avere un effetto devastante, e noi dobbiamo cercare di alleggerire questo carico e limitare il danno. Uno dei punti di contatto con Zurich è dunque il crescente interesse per i temi legati alla salute, al benessere e agli argomenti correlati. Questa è una razionalizzazione nei confronti della fondazione in atto ormai da 5 anni.

 

Dovete dunque prestare molta attenzione sia all’allineamento con l’azienda sia ai temi sociali più importanti, in modo che la vostra linea strategica tenga conto di entrambi questi aspetti? 

Esatto. Sono convinto che la nostra natura sia quella di una fondazione corporate, dato che I nostri fondi provengono esclusivamente dall’azienda. È giusto quindi che siamo allineati con la strategia aziendale, quindi laddove Zurich individua sfide e opportunità, spesso emerge anche un risvolto sociale. Questo ci aiuta a dare una direzione al nostro lavoro, sia in termini di competenze utili ad affrontare determinate sfide, sia in termini di risultati nel sostenere e dare forma a un modello di società che possa contribuire a risolvere i problemi dell’azienda.

 

Per quali motivi avete deciso di utilizzare la theory of change e di essere così strategici nel delineare i progetti? Avete fatto delle verifiche, avuto dei riscontri dopo aver adottato questo metodo, che punta molto sulla misurazione dei risultati?

Quando abbiamo iniziato il progetto Resilience avevamo la generica intenzione di aumentare la capacità di ripresa delle comunità dopo le inondazioni, e ci siamo subito resi conto che investire in edifici resistenti alle alluvioni era più efficiente in termini di costi rispetto a riparare i danni provocati dalle inondazioni già avvenute. Alcune verifiche ci permisero di calcolare che per ogni dollaro speso per costruire case resistenti si potevano risparmiare fino a 5 dollari in soccorsi e ricostruzioni. Di fatto, finanziare I soccorsi e le ricostruzioni post evento costa molto denaro, che potrebbe invece essere risparmiato o utilizzato in maniera più efficiente guardando al futuro. Volevamo portare queste conclusioni nelle comunità. Decidemmo così di collaborare con due partner locali: una piccola associazione, per testare le idee sul campo, e un’altra più grande e capillare, con l’intenzione di mettere alla prova le ipotesi con la prima, implementarle e portarle su larga scala con la seconda. E all’inizio devo dire che questo schema mi convinceva. Nel corso del primo anno e mezzo, però, ci siamo resi conto che non riuscivamo a capire se queste dinamiche stavano funzionando o no, e a quel punto abbiamo cominciato a valutare quali cambiamenti stavamo realmente provocando sul terreno. Volevamo aumentare la capacità di ripresa delle comunità, ma cosa voleva dire esattamente? Qual era il cambiamento da innescare? Come potevamo facilitarlo? Siamo così arrivati a sviluppare una theory of change su misura per il progetto, a partire dal punto in cui eravamo, dai nostri partner, dalle loro attività; come ci dovevamo muovere? Abbiamo messo nero su bianco i passi da intraprendere per arrivare al cambiamento che ci aspettavamo, e questo ci ha aiutato parecchio a dare nuova forma ai nostri rapporti con le organizzazioni sul campo e, soprattutto, a progettare il futuro di questi rapporti. Avevamo iniziato senza un’idea precisa di come misurare la capacità di ripresa e di come capire se la stavamo incrementando o no. Se vuoi cambiare veramente qualcosa, hai bisogno di punti fermi da cui partire; il processo di sviluppo della theory of change ci ha permesso di comprendere quale fossero i nostri capisaldi, immaginare strumenti e processi, e quindi far sì che i nostri partner ci aiutassero a creare quegli strumenti e quei processi. Non credo che questo sarebbe successo così facilmente senza la theory of change, la theory of change l’ha reso possibile. Tuttavia c’è un aspetto ancora più interessante del beneficio che la theory of change ha portato al progetto, ed è l’origine della seconda fase. La fase 2 de progetto ha visto il coinvolgimento di tutti i nostri partner, a cui è stato erogato un piccolo finanziamento nei primi sei mesi del 2018. La ratio della decisione è stata preparare da subito, all’esordio, il risultato che la theory of change andrà a individuare per il progetto in essere. Abbiamo un ampio margine temporale, abbiamo alcune ipotesi sul raggiungimento dello scopo, ma come andrà realizzato, che tipo di cambiamento stiamo cercando? Abbiamo quindi discusso a lungo, come gruppo, attorno a un tavolo, sviscerando tutte le ipotesi sul futuro sviluppo della theory of change. Capire dove ci avrebbe portato, paradossalmente, è un metodo di valutazione più incisivo. Ci renderà capaci di misurare i progressi in base alla theory of change. Usarla in modo retrospettivo è stato interessante, ma applicarla al futuro ci darà una visione davvero complessiva di ciò che stiamo cercando di realizzare con il progetto, di come le nostre azioni stanno contribuendo allo scopo, e sarà tutto misurato; misureremo i progressi rispetto al cambiamento. In questo modo probabilmente sarà davvero molto utile. 

 

Prima di realizzare il progetto avete investito molto tempo e molta energia per capire quale fosse il modello più corretto. È un atteggiamento molto responsabile. Ascoltate I vari partner, li coinvolgete e create la vostra theory of change per essere più misurabili. Il problema non è solo stabilire quanti fondi o quanti progetti si fanno per la comunità, ma quanto valore aggiunto si produce. È questa la direzione in cui vi state muovendo?

È proprio così. Noi ci siamo incamminati in questa direzione, negli ultimi 5-6 anni abbiamo cercato di allinearci il più possibile all’azienda. Il ruolo di una fondazione corporate è sostenere, in diversi modi, la strategia di investimento dell’azienda nella comunità. L’azienda riconosce che senza una comunità che prospera e cresce mancano le basi per operare, manca il valore reputazionale che le consente di operare; deve quindi creare una relazione con la comunità in modo da consentirle di sviluppare ricchezza e quindi generare il bisogno dei servizi che l’azienda offre.

L’azienda ha bisogno di una licenza sociale per operare, un permesso di agire nella comunità, perché la comunità riconosca il valore che porta e si possa fidare dell’azienda. È interesse dell’azienda coltivare e curare le comunità, creando l’ambiente ideale per prosperare, ed è questo il ruolo di una fondazione corporate, secondo me. Bisogna trovare il modo di convogliare il denaro direttamente, magari aprendo un piccolo ufficio in azienda che valuti le richieste di finanziamento e decida le erogazioni per ottenere benefici fiscali, ma questo richiede molto tempo; altrimenti si può destinare il denaro a una fondazione, sulla quale è possibile anche avere una maggiore influenza a livello strategico. Una fondazione corporate stabilisce un legame strategico tra l’azienda e le donazioni alla comunità, e i temi che interessano sia all’azienda che alla comunità, dunque è molto utile per creare un legame tra le persone. È faticoso, devo dire, per tutti gi attori coinvolti: storicamente le fondazioni corporate sono sempre state enti di beneficenza che donavano, non importa a chi, nessuno faceva i conti alla fine del mese; io credo invece sia necessario connetterle strettamente alle priorità aziendali, o anche alle strategie aziendali, che riguardano direttamente la vita delle comunità locali, o le difficoltà che ostacolano lo sviluppo dell’azienda a livello locale. Se ho un’azienda, voglio crescere! Quali problematiche sociali possono ostacolare la mia crescita, cosa mi rende difficile fare impresa, assumere personale, portare benefici alla società? Rispondere a queste domande significa creare un legame tra fondazione e azienda. Mi spiego: ci sono almeno due vantaggi nell’avere una fondazione corporate. Uno è poter utilizzare i nostri fondi per incentivare l’impegno sociale dei dipendenti nelle comunità. Possiamo essere d’aiuto, a un livello diverso, di significato, incoraggiando I dipendenti a fare volontariato o raccolta fondi a livello locale, in modo da poter poi impiegare I fondi raccolti per attività di matching a favore delle organizzazioni in cui i dipendenti sono coinvolti; possiamo anche promuovere iniziative quali “Il Dipendente dell’Anno”, fare donazioni alle associazioni che i lavoratori sostengono, tutti modi per incoraggiare i dipendenti a coinvolgersi sempre più. Credo che l’impegno sociale sia sempre positivo, per il benessere personale, ovviamente, ma anche perché crea un forte legame tra le persone che riconoscono in quell’impegno un valore per la loro vita, e l’azienda che li mette nelle condizioni di ottenerlo. È un legame che produce attaccamento, produce un clima positivo in azienda, aiuta a motivare i dipendenti. Avremo quindi personale motivato e soddisfatto, che diventerà più produttivo, in un ambiente più sereno, soprattutto nel settore del servizio clienti, una funzione in cui è essenziale la relazione con il cliente: qui i lavoratori saranno ottimi ambasciatori dell’azienda perché hanno un legame di questo tipo con essa. Ecco quindi l’ulteriore vantaggio di avere una fondazione corporate: stabilire questo legame tra datore di lavoro e dipendenti, al punto che questi ultimi si sentono veramente motivati nel proprio lavoro.

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