VII Philanthropy Day | La sfida della SOI® di Neil Gaught
16 Luglio 2019
“Pochi sanno che in America il settore non profit conta oltre 80 milioni di persone che lavorano nel volontariato (ndr gratis) per una media di quasi 5 ore la settimana, l’equivalente di 5 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Se questi volontari fossero pagati, i loro stipendi ammonterebbero come minimo a 150 miliardi di dollari, pari al 5% del PIL degli USA…” – “Quando domando loro perché lo fanno, moltissimi danno la medesima risposta il mio lavoro normale… non offre molte opportunità di realizzazione personale… non c’è missione, soltanto ambizione personale e guadagno”
Così scriveva P. Drucker nel 2001, suggerendo alle imprese sia di imparare dalle organizzazioni “non-profit” l’arte della motivazione sia di impegnarsi nel sociale come opportunità di business.
Da allora sono passati quasi 20 anni e questo processo non si è mai arrestato. Secondo Alessandro Zollo, Amministratore Delegato di GPTW (Great Place To Work, la società che valuta e premia le aziende in cui è “più bello lavorare”), il trust index medio dei lavoratori italiani è di soli 44 punti. Nelle aziende GPTW “i collaboratori felici” arrivano fino a 83 punti, quasi il doppio. Come si rendono felici le persone? ma soprattutto, si può generare valore da persone infelici?
Il ruolo crescente di emozioni e sentimenti
I figli della iper modernità e delle società del benessere sono diventati esigenti. Non vogliono solo soldi, cercano senso, energia, benessere. Sono svogliati in reparto, ma fanno volontariato di notte alla Croce Rossa; si disinteressano dell’azienda, ma partecipano alla raccolta della plastica nei boschi; non fanno straordinari ma chiedono il permesso per fare le prove con la band o la compagnia teatrale amatoriale. Il “terzo settore” si sta sviluppando anche in Italia e conta 363 mila organizzazioni, 813 mila dipendenti e 5,5 milioni di volontari. Tutto questo non è casuale, ma l’effetto di un bisogno emergente di “valore emozionale”, un mutamento culturale in corso.
Gli effetti sul mercato del lavoro sono che imprese “profit” che “pagano meglio” non trovano collaboratori mentre organizzazioni “non-profit” che “pagano peggio” ricevono 200 curriculum con un solo annuncio su Linkedin. Ma gli effetti non si esauriscono sulla forza lavoro e riguardano tutti gli stakeholder: clienti, fornitori, istituzioni locali, opinion leader, giornalisti, blogger. Tutti reclamano imprese oneste, sostenibili, rispettose dei diritti umani e della natura. Anche gli investitori vivono le loro pulsioni emotive e l’impact investing (imprese che misurano il loro impatto sociale) è entrato nelle loro agende.
Che le imprese possano creare valore sociale non è una novità. Negli anni ‘50 lo facevano cavalcando il mito del progresso e del benessere. In Italia ne abbiamo conosciute alcune di grande prestigio internazionale come Olivetti e ed Eni, aziende che investivano sul welfare dei loro collaboratori con una lungimiranza di attenzioni ancora esemplare. A quei tempi nei bilanci si parlava di “utile”, una parola che evocava sentimenti nobili. Oggi è entrato nell’uso comune la parola “profit”, suono che evoca l’approfittarsi di una condizione di vantaggio, e tutti sembriamo diventati suoi servitori. Ma il mondo e le persone stanno cambiando. I paesi occidentali più avanzati, quelli in cui il capitalismo ha raggiunto il suo massimo livello di espressione economica, devono affrontare alcune nuove grandi tematiche di carattere sociale e culturale vissute soprattutto dalla generazione dei millennials:
- diseguaglianze crescenti tra ricchi e poveri
- sostenibilità e mutamenti climatici
- nuove generazioni digitali e connessione globale
- fenomeni migratori
Crescono i bisogni di giustizia, sostenibilità, emozione e verità
Giustizia: secondo un’analisi OXFAM in Italia il 5% della popolazione possiede la ricchezza del 90%; nel mondo 26 persone possiedono la ricchezza di oltre 3,8 miliardi di persone povere; l’1% più ricco possiede il 47,2% della ricchezza del pianeta, contro lo 0,4% posseduto dai 3,8 miliardi di persone più povere. 100 anni fa forse era ancora peggio, ma non lo sapeva nessuno; oggi basta un post sul web e tutti sanno tutto in tempo reale.
Cresce il bisogno di rispetto per il pianeta: nell’oceano Pacifico due “isole di plastica” raggiungono ognuna il peso di circa 100 milioni di tonnellate di rifiuti per un diametro di oltre 2500 chilometri e una profondità di almeno 30 metri.
Aumenta il tasso di emotività: da una ricerca condotta da Microsoft la soglia d’attenzione delle nuove generazioni è di solo 8 secondi, inferiore a quella dei pesci rossi che è di 9: «In 2000 the average attention span was 12 seconds, but this has now fallen to just eight. The goldfish is believed to be able to maintain a solid nine». Per fare audience i codici della comunicazione “social” rendono tutto estremo: i disastri ambientali, gli attentati terroristici, i fenomeni climatici, le violenze, le migrazioni. Conosco persone che hanno casa a Lampedusa e giurano di non aver mai visto un migrante. Ci credereste?
Bisogno di verità: una ricerca condotta da IPSOS su un campione di oltre 18.531 persone in 26 paesi diversi, indica che soltanto il 39% crede in ciò che dicono i CEO (il minimo è il 23% in UK, il massimo il 71% in Cina). Secondo una ricerca Nielsen, i millennials sono quattro volte più sensibili alla reputazione delle imprese sostenibili e il 92% di loro respinge l’idea che il profitto sia la sola cosa importante del business.
Neil Gaught, autore del libro “Core – how a single organizing idea can change business for good” ritiene che per interpretare questi cambiamenti in modo corretto, occorra sviluppare una SOI, una sola grande idea capace di dare senso alle istanze economiche e sociali dell’organizzazione, sia essa profit che non profit. Secondo Gaught è finita l’era del CSR, della charity, della filantropia, della sostenibilità, del greenwashing o dello shared value. Non si può prendere con una mano e donare con l’altra, occorre dichiarare come si vuole rendere il “mondo un posto migliore” e “farlo veramente!”. Lo scopo economico non può essere separato da quello sociale.
Secondo Gaught, competere oggi significa questo, sviluppare un’idea capace di trascinare emotivamente tutti gli stakeholder offrendo loro un senso profondo con cui convivere. La strategia deve trovare un’unica espressione che renda inscindibili i due scopi: economico e sociale. Un’utopia? Forse, ma certamente una provocazione su cui riflettere. A titolo di esempio Gaught cita imprese storiche come Cadbury, Jhonson & Jhonson, Hawkins, Volvo (in cui ho lavorato e per la quale sento ancora orgoglio e senso di appartenenza dopo 30 anni), e le più recenti Community Clothing, Patagonia, Neighbourly e Debswana.
Personalmente sono convinto che “purposes” etici e ideali siano presenti nella storia della maggior parte delle grandi imprese. Gli antropologi sostengono che oltre le 150 unità le tribù si disgregano, non trovano motivazioni per stare insieme. Per tenerle unite l’homo sapiens, secondo M. Gladwell e Y. Harari, avrebbe “inventato” i grandi valori universali in cui riconoscersi e per i quali vivere e combattere: la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, il progresso, le religioni. Purtroppo il cinismo della grande finanza internazionale li ha sacrificati in nome del profitto “presto e subito”. Anthony Jenkins CEO di Barclays, tentò di reintrodurre i valori Quaccheri su cui la banca era fondata, ma dovette dimettersi dopo soli tre anni.
Il discorso è un po’ diverso per le imprese familiari, dove la leadership del “cognome” spesso “incarna” valori umani profondi come la passione, il rispetto, l’onestà. A chi pensasse a una visione ingenua e romantica del business può essere utile ricordare la storia di Olivetti, distrutta da un approccio finanziario speculativo, ma cresciuta su ben altri valori. Per Adriano Olivetti l’innovazione e la produttività erano tanto importanti quanto la formazione, la vivibilità degli spazi, il welfare, la meritocrazia, il senso di giustizia delle retribuzioni. Al fianco di Olivetti non operavano solo ingegneri, ma anche grandi architetti, designer, poeti, psicologi e uomini di cultura. Se pensiamo che Olivetti nel 1970 aveva oltre 73.000 dipendenti sparsi in tutto il mondo, che vantava un modello di macchina da scrivere esposto al MOMA di New York, il primo Personal Computer della storia, insieme a biblioteche aziendali, circoli ricreativi, asili nido, scuole di formazione, possiamo sperare che tutto ciò sia ancora possibile.