Modelli filantropici per andare oltre lo starvation cycle delle non profit: la strategia di capital aggregation della Edna McConnell Clark Foundation

L'intervista a Chuck Harris, Managing Director e COO del programma Blue Meridian Partners, analizza l'iniziativa che allocherà oltre $1 miliardo nei migliori programmi di supporto ai giovani per fornire alle non profit il capitale necessario per consolidare e scalare le loro iniziative a livello nazionale

Modelli filantropici per andare oltre lo starvation cycle delle non profit: la strategia di capital aggregation della Edna McConnell Clark Foundation

La Edna McConnell Clark Foundation è stata costituita grazie alla fortuna di David Hall McConnell, fondatore di Avon: furono la figlia Edna McConnell e il marito Van Alan Clark, presidente del consiglio di amministrazione di Avon negli anni ’50, a decidere di allocare gran parte delle proprie risorse in una fondazione.

Con un patrimonio di circa $1 miliardo ed erogazioni annuali che si attestano sui $40-50 milioni, la EMCF è uno degli esempi più interessanti nello scenario attuale soprattutto per quanto riguarda le pratiche di collaborative philanthropy: dal 2007, la EMCF è stata tra i pionieri della capital aggregation nel settore sociale, integrando questa strategia nel proprio approccio.

A seguito della decisione dei trustee di devolvere l’intero patrimonio della Fondazione nei prossimi dieci anni, nel 2016 è stato lanciato il progetto Blue Meridian Partners, un consorzio di dodici istituzioni filantropiche e individui incubato da EMCF che rappresenta la massima evoluzione in termini di capitalizzazione e governance della strategia di capital aggregation. BMP sta raccogliendo risorse per allocare oltre $1 miliardo, attraverso investimenti importanti (fino a $200 milioni cadauno), sui più promettenti programmi a supporto dei bambini e dello sviluppo dei giovani, fornendo il capitale necessario alle non profit per consolidare e scalare queste iniziative a livello nazionale.

Ne discutiamo con Chuck Harris, Managing Director e COO del programma Blue Meridian Partners. 

 

Potrebbe descriverci l’evoluzione del modello filantropico della EMCF negli anni? 

Nei 30 anni che hanno seguito la nascita della EMCF, la Fondazione era molto diversa da oggi e seguiva un’ampia agenda comprendente diverse aree programmatiche e geografiche, con un’enfasi sulla prevenzione della malattie. Con la nomina a presidente di Michael Bailin nel 1999, ha preso forma un’evoluzione significativa nella strategia erogativa della EMCF che è ancora evidente nel lavoro che portiamo avanti: focalizzarci su una singola area programmatica (lo sviluppo giovanile), rivolgendo i nostri sforzi agli individui più vulnerabili e identificando interventi in grado di interrompere il ciclo di trasmissione intergenerazionale della povertà. Questa scelta, che muoveva dalla volontà di ottimizzare le risorse disponibili e aumentare la nostra capacità di generare cambiamento grazie a una focalizzazione stringente di obiettivi e target, ha significato spostarsi dall’erogazione di molti grant di dimensioni ridotte a favore di tante organizzazioni al supporto attraverso poche donazioni non vincolate, multimilionarie e pluriennali miranti a favorire la crescita delle realtà non profit.

“La strategia erogativa della EMCF si concentra sullo sviluppo giovanile attraverso donazioni non vincolate, multimilionarie e pluriennali miranti a favorire la crescita delle realtà non profit per sostenere interventi che possano interrompere la perpetrazione intergenerazionale della povertà”

 

Qual è la ricetta della EMCF per avviare e gestire la relazione tra enter erogatore e beneficiario non profit? 

Il primo passo è stato – ed è tutt’oggi – un processo di business planning di cui copriamo i costi, collaborando con i nostri partner del Bridgespan Group per lavorare insieme al management della non profit allo sviluppo di un piano che definisca il contesto di mercato, gli obiettivi a lungo termine, le risorse necessarie, ecc. Questo rappresenta una differenza radicale con i tradizionali modelli erogativi: il nostro ruolo deve consistere nell’aiutare le non profit a chiarire cosa vogliono raggiungere e come e nel fornire le risorse funzionali al conseguimento di quei risultati (un modello che, dal mio background commerciale, è molto in linea con un investimento in equity per far crescere un’organizzazione), piuttosto che imporre di ridisegnare o modificare programmi esistenti in modo da allinearsi a criteri di supporto progettuale dell’ente erogatore.

Dal business plan estraiamo i KPI che nella nostra prospettiva potranno indicarci se l’organizzazione si sta muovendo verso gli obiettivi condivisi. E’ chiaro che si tratta di un equilibrio che richiede flessibilità: da un lato, i progressi negli indicatori contribuiscono a determinare la nostra soddisfazione e quindi la probabilità di estender il supporto; dall’altro, dobbiamo renderci conto che problemi e imprevisti rappresentano la normalità – quindi nei momenti critici dobbiamo assumere un ruolo operativo di supporto alle non profit per superare l’impasse piuttosto che semplicemente porre fine alla partnership. Stiamo investendo in loro e quindi dobbiamo aiutarli a superare una visione di fundraising che costringe le non profit a vivere alla giornata. 

“Esiste una disconnessione tra le aspettative degli enti erogatori – che vogliono che le non profit siano strategiche e producano impatto – e le non profit – che non sanno se riusciranno a raccogliere le risorse necessarie a pagare lo staff il prossimo anno. La soluzione consiste nel pre-finanziare un piano di crescita che trasmetta alle non profit la stabilità necessaria per concentrarsi sul miglioramento e sulla crescita” 

 

All’inizio pensammo che, grazie ai grant della EMCF, le non profit sarebbero state in grado di catalizzare gli investimenti di altri grandi erogatori ma, dopo alcuni anni, ci rendemmo conto che i nostri grantees stavanno faticando a ottenere quel supporto: se volevamo che il nostro piano avesse successo, dovevamo assisterli attivamente.

Così nel 2006 abbiamo lanciato il Growth Capital Aggregation Pilot (GCAP) per lavorare separatamente ma simultaneamente con tre non profit del nostro portafoglio (Nurse Family Partnership; Youth Villages; Citizen Schools) per raccogliere capitale di crescita. Fare fundraising per le non profit – un compito inusuale per una fondazione, che però ha funzionato: EMCF ha fornito circa il 30% delle risorse necessarie riuscendo a convincere altri finanziatori ad accettare gli stessi termini erogativi che regolavano le nostre partnership. Noi avremmo agito come coordinatore in modo che le non profit non dovessero riportare a quindici finanziatori diversi: saremmo stati il focal point che avrebbe ricevuto, analizzato e condiviso con gli altri finanziatori i report trimestrali. Nel periodo 2007-2015, la EMCF ha fornito $155 milioni, gli altri enti erogatori pubblici e privati quasi $487 milioni; in sostanza siamo riusciti a quadruplicare la nostra potenza di fuoco.

“L’approccio di aggregazione di capitali non risolve tutti i problemi ma fornisce alle non profit quel grado di sicurezza finanziaria indispensabile per raggiungere i loro obiettivi”

 

Qual è l’obiettivo primario dell’iniziativa Blue Meridian Partners e come siete giunti al lancio di questo nuovo modello filantropico?  

Nel 2012, EMCF è diventata il primo e principale beneficiario del Social Innovation Fund (SIF) , un’iniziativa del governo statunitense per sostenere programmi sociali potenzialmente trasformativi. Per potenziare i programmi supportati da EMCF e dal SIF affinché fossero eleggibili e raggiungessero gli obiettivi, la Fondazione ha costituito il  True North Fund insieme ad altri 13 co-investitori filantropici.

A quel punto abbiamo pensato a cosa avremmo potuto fare una volta concluso il SIF e ci siamo concentrati sulle non profit di maggiore successo che sostenevamo da tempo: erano cresciute significativamente in termini organizzativi e di impatto, ma si stavano ancora rivolgendo al 4-5% del mercato potenziale – il che equivale a dire che il 95% della popolazione di giovani era ancora esclusa da programmi che avrebbero potuto aiutarli realmente: questo non poteva essere considerato un successo. Blue Meridian Partners è stata la nostra risposta, la nuova fase della strategia di capital aggregation con due evoluzioni principali.

In precedenza ci occupavamo di tutta la due diligence, del lavoro di pianificazione, della strutturazione del grant e poi ci muovevamo per proporre ad altri enti erogatori di investire agli stessi termini. Quello che abbiamo appreso è che, in nessun caso, i co-finanziatori avrebbero avuto il nostro stesso senso di appartenenza, di ownership di quel progetto. Così abbiamo deciso di individuare prima un gruppo ristretto di sostenitori del capacity building delle non profit in modo che fossero partner al 100% e non solo co-investitori  e potessero partecipare alla decisione sulle realtà da finanziare, sulla strutturazione delle donazioni, e su tutte le decisioni in itinere. Crediamo che questo modello di governance condivisa sia stato fondamentale per coinvolgere i partner a investire contributi molto più importanti di quanto siamo mai riusciti a mobilitare.

Il secondo punto è che, invece di realizzare una serie di business plan quinquennali, abbiamo chiesto alle non profit di progettare davvero a lungo termine. “Cosa fareste, che cambiamento potreste creare, quante persone potreste aiutare se il denaro non fosse un problema? Potreste farlo da soli o avreste bisogno di partner?” sono alcune delle domande che abbiamo posto in modo da ottenere dei business plan su un orizzonte di 10-20 anni che sono sicuramente molto ambiziosi – ma a mio avviso anche più realistici dei precedenti, e soprattutto in grado di evidenziare realmente il cambiamento che si registrerebbe a livello di sistema.

 

Quali sono i criteri che BMP utilizza attraverso il suo modello di “shared governance” per identificare le realtà investibili?

Seguiamo sei principali criteri interconnessi.

  1. L’iniziativa che la non profit porta avanti funziona, vale a dire: esiste una solida base di evidenze che suggeriscono come la risposta dell’organizzazione abbia davvero un effetto sulle vite dei giovani. Questo comporta la disponibilità della non profit a una valutazione esterna che confermi il ruolo dell’organizzazione nel produrre il cambiamento osservato nei beneficiari finali.
  2. Il management e il board sono solidi e ottengono la nostra fiducia.
  3. Esiste un’abilità di crescita, cioè l’organizzazione ha un track record, non è una start-up, e non mira a diventare un provider di servizi di livello intermedio.
  4. E’ presente una vision, e il nostro supporto può trasformare quella visione in realtà, facendo assurgere il modello programmatico dell’organizzazione ad approccio dominante negli Stati Uniti per rispondere a un particolare bisogno. Se la mia organizzazione opera in cinque stati, posso davvero immaginare di raggiungere i giovani in 50 stati e mantenere il coinvolgimento nel tempo? Si tratta di un criterio molto stringente che consideriamo fin dall’inizio della relazione.
  5. Esiste una piattaforma di scala, ad esempio i servizi che la non profit eroga potrebbero essere “comprati” a livello statale e integrati in un approccio sistemico.
  6. E’ presente un modello economico sostenibile. Chiaramente questo criterio è collegato a tutti gli altri, ma una delle modalità migliori in cui si riesce a inquadrarlo sta nell’abilità di immagine realisticamente se, in dieci-quindici anni, i servizi potranno essere portati avanti senza una percentuale dominante di capitale filantropico.

Se si considerano i sei criteri simultaneamente, si capisce come l’universo dei possibili provider si riduca rapidamente: la maggior parte delle nostre sfide consiste nell’identificare i pochi che crediamo possano davvero avere una possibilità di diventare erogatori a livello federale di servizi che siano sostenibili e che funzionino.

 

Qual è la vostra definizione di successo? Vi misurate in termini di efficacia dell’intervento o il primo criterio consiste nella scala e nell’accresciuta capacity delle non profit? 

Si tratta di una combinazione di questi due criteri: il nostro obiettivo al termine del periodo di supporto è che la capacità di delivery del programma sia aumentata sostanzialmente per raggiungere una percentuale rilevante della target population potenziale, continuando al tempo stesso ad essere efficace. 

Nella maggior parte dei casi, l’organizzazione che sosteniamo ha alle spalle uno, due, tre studi randomizzati controllati; ma va definito anche un piano di valutazione significativo in ottica più continuativa, che combini la raccolta di dati a livello interno per il decision making e il coinvolgimento di un valutatore esterno che verifichi che l’intervento continui ad avere effetti e che questi non si perdano nel tempo o a causa della più ampia scala geografica su cui l’intervento si realizza.

Infine, il nostro obiettivo non è solamente investire nella singola organizzazione ma permettere la nascita di collaborazione a livello statale e federale. Non si tratta soltanto di sostenere la non profit ad aumentare la propria capacity ma anche di identificare i partner che permettano di traslare i servizi a un nuovo livello – ad esempio, dimostrando che un programma comprovatamente efficace è anche più efficiente in termini di costi e potrebbe rappresentare una soluzione migliore per rispondere a un problema sociale urgente e irrisolto.

“Successo per noi significa che la delivery del programma è aumentata sostanzialmente per raggiungere una percentuale rilevante della target population potenziale, continuando al tempo stesso ad essere efficace”

 

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