Theory of Change: il cambiamento è molto di più di una teoria
17 Settembre 2019
Fin dal 2012, un articolo pubblicato da Stanford Social Innovation Review metteva in guardia le organizzazioni non profit sulle “insidie” di una Theory of Change come esercizio formale, soltanto per adempiere agli obblighi degli enti erogatori o ai voleri dei donatori e dei board. Più recentemente, nel luglio 2019, un report di Gwen I. Walden affronta le stesse “insidie” fornendo qualche consiglio pratico su come trarre un beneficio reale da questo processo di pianificazione, astratto solo in apparenza.
Il problema è sempre lo stesso, come trasformare un’idea in realtà, un progetto in un risultato, una serie di azioni in un cambiamento, una strategia in un impatto reale.
È necessario premettere che la Theory of Change è tanto più utile quanto più è complesso il progetto e il contesto in cui viene applicata.
Se organizzate una colletta per l’acquisto di un’ambulanza il focus sul “cambiamento che volete generare” è lo stesso, ma il processo di pianificazione necessario per raggiungere il risultato sarà inferiore a quello di progetti più articolati e complessi. Pensate ad esempio a un progetto per favorire il reinserimento nella società degli ex detenuti, oppure alla realizzazione di un ospedale in Zambia. Per avere un’idea della complessità di un ospedale, senza andare fino in Africa, basta pensare a quante strutture sanitarie o sale chirurgiche risultano abbandonate o sotto utilizzate in molte regioni della nostra penisola. Per ottenere il cambiamento reale non bastano infatti gli l’output, l’ospedale, le attrezzature, gli infermieri e i medici, occorre riconquistare la fiducia dei cittadini, farsi una reputazione, combattere la corruzione e il clientelismo, vigilare sulla “malasanità”, un intreccio di ruoli, interessi, persone, risorse, conoscenze, competenze davvero impressionante.
Per affrontare in modo corretto una “strategia” la Walden consiglia di prendere in considerazione le tre aree di cui alla figura.
Il triangolo su cui porre gli obiettivi di cambiamento e miglioramento deve quindi tener conto di:
1. fattori emozionali che muovono l’organizzazione (mission, vision, values)
2. risorse e competenze interne (internal capacity)
3. contesto esterno in cui si vuole operare (external environment)
Proviamo ad esaminare le tre aree: Values, Vision, Mission
Values
Per realizzare “un obiettivo importante” occorre un sistema di valori condiviso che sappia sviluppare un “credo” comune, forte e determinato. I “valori” sono le cose importanti in cui crediamo. Nella nostra cultura sono valori fondanti la famiglia, la libertà, la giustizia, idee astratte che non si toccano e non si pesano, ma che sanno motivare e orientare milioni di persone. Credere fermamente nella realizzazione di “qualcosa di astratto” (accoglienza, dignità, solidarietà, equità, educazione, libertà) vale molto di più che ambire a “qualcosa di concreto” (denaro, beni di consumo, divertimenti) ed è la prima condizione per raggiungere risultati importanti. Vale per gli individui, ma anche per le organizzazioni. I valori delle organizzazioni normalmente corrispondono a quelli dei loro fondatori e non è un caso che si sposino perfettamente con le varie mission. Ogni azione efficace ha sempre un valore coerente a cui si ispira. Quante associazioni di ricerca o assistenza si ispirano al valore della “vita” di qualche familiare affetto da malattie o scomparso per le cause che si vogliono combattere o eliminare? Ma vale anche per attività meno “esistenziali” e più civiche. Ad esempio, per chi come il nostro Centro Studi Lang si occupa di ricerca, formazione, consulenza e divulgazione, l’indipendenza è un valore fondante perché garantisce credibilità, imparzialità di valutazione e autonomia di pensiero. Ogni attività si ispira a valori che la sostengono e la rendono più efficace. Individuare i valori di un’organizzazione non è semplicissimo, tuttavia vale la pena investirvi tempo e attenzione. Un ultimo consiglio: avvaletevi di collaboratori che credono nei vostri valori perché i valori nascono durante l’infanzia e l’adolescenza e dopo non si cambiano facilmente.
Vision
Un progetto ambizioso necessita anche di una “visione”, una via di mezzo tra il “sogno” e “l’obiettivo”, una meta che sappia scaldare i cuori e muovere le menti, pur rimanendo nei limiti della “fattibilità”. Per individuare la visione occorre scrutare dentro di sé e immaginare il proprio destino nel medio lungo periodo (5/7 anni). La visione più comune che tutti hanno immaginato risponde alla domanda: cosa vuoi fare da grande? Cosa vuoi diventare? Provate a descrivere cosa volete che diventi la vostra organizzazione tra 10 anni: dimensioni, risultati, reputazione, attività, territorio e target di intervento.
Mission
Ed infine la “mission”, il contenuto prezioso da portare e diffondere, la “good proposition” da scambiare e condividere con la popolazione beneficiaria, con il contributo di tutti gli stakeholder. Si può fare del bene in molti settori diversi. L’Istat ne individua una decina tra cui cultura, sport, ricerca, sanità, ambiente, assistenza, sviluppo economico; gli SDGs dettati dall’ONU ne prevedono 17.
Individuato il settore i contenuti degli interventi possono essere mille e tra loro diversissimi. Alcuni sono efficaci e innovativi, altri meno. Nella mission vi è il contenuto che si vuole mettere a disposizione dei beneficiari, ad esempio housing, istruzione, pasti, conoscenze, competenze, educazione, sostegno economico, sostegno psicologico, assistenza domiciliare. Le soluzioni migliori sono sempre quelle che non esistono ancora, quelle che passano per le nuove tecnologie, per la creatività e l’innovazione. Fino a qualche anno fa non si sapeva neppure cosa fosse il crowdfunding, oggi si parla già di cripto-philanthropy, per indicare l’utilizzo della blockchain, token e bitcoin.
Internal capacity
La seconda area proposta dalla Walden riguarda le risorse hard e soft disponibili: persone, conoscenze, competenze, strumenti, tecnologie, fondi, capacità organizzative, relazioni esterne, partner, reputazione. La vision, la mission e il “credo” dovranno fare i conti con la realtà: cosa sapete fare veramente bene? Sognare di partecipare alle olimpiadi e di vincere i 100 metri è folle se avete 50 anni e non avete mai praticato uno sport. Sognare di risolvere il problema della fame del mondo è irrealistico se il budget della vostra fondazione è di 20 mila euro l’anno. Ma anche questa area presenta alcune insidie. Senza un esame obiettivo e distaccato, potreste sopravalutare o sottovalutare le vostre capacità, intraprendere attività di cui non siete all’altezza o tralasciarne altre in cui invece potreste avere successo.
Tra le “capacità interne” dell’organizzazione ce n’è una che ha a che fare con la “capacity building”, ovvero la capacità di migliorare, mantenere, apprendere, accrescere le proprie capacità. Chris Anderson nel suo interessante libro “Makers” sostiene ad esempio che oggi, grazie alla rete, alle conoscenze e competenze diffuse, alla possibilità di mobilitare risorse economiche con il crowdfunding, “chiunque possa fare qualsiasi cosa”. Un’affermazione impegnativa che però rivela l’orizzonte sempre più ampio delle proprie capacità potenziali.
Favoriscono l’acquisizione di “capacità”, l’applicazione di principi come la diversità, la partecipazione, l’inclusione. Selezionate persone di provenienza, età, cultura e formazione diversa; favorite la partecipazione, il lavoro di squadra, la costruzione di comunità, forum, network; includete i “primi” ma anche gli “ultimi”, andate sul “campo” e contaminatevi con i problemi che volete risolvere.
External environment
La terza area è costituita dal contesto esterno in cui intendete operare. È una delle aree più sottovalutate in assoluto, soprattutto da chi ha avuto successo in un determinato settore/territorio/popolazione/contesto istituzionale e si appresta ad intervenire in un ambiente diverso. Se è difficile conoscere “sé stessi” immaginate quanto sia difficile conoscere popoli, culture, ambienti, persone molto diverse da voi. Il fatto che siate riusciti in un’impresa non garantisce che il vostro modello funzioni sempre, anzi spesso il “successo” (che ricordiamo è un participio passato) favorisce l’insorgere di “certezze” che non aiutano il processo di “ascolto” dei bisogni e delle condizioni delle popolazioni beneficiarie. L’incapacità di leggere la situazione esterna comporta fallimenti cocenti. C’è chi voleva “esportare la democrazia” in Asia ed ha finito per alimentare guerre di religione tra popoli; c’è chi promuove lo sviluppo economico con i metodi e le ricette occidentali e fa spesso più danni che benefici.
Vi invito a vedere l’intervento sulla cooperazione internazionale di Ernesto Sirolli su TEDx, in cui ammonisce: “volete aiutare qualcuno? State zitti e ascoltate!”
Ascoltare è difficile soprattutto le comunità. Grazie alla psicologia l’occidente ha imparato ad ascoltare molto gli individui, un po’ meno le culture. Per comprendere l’ambiente occorre diventare antropologi, riconoscere i valori, rispettare le usanze, i simboli, le religioni, i cibi, i rituali. Vale per le popolazioni africane ma anche per i diseredati e gli homeless di casa nostra.
Il lavoro di Gwen Walden continua con altri interessanti consigli su come implementare efficacemente i propri interventi. Noi ci fermiamo qui. Chi vuole proseguire il percorso può scaricare l’intero documento a questo link.
Buon proseguimento di lettura.
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